sere considerata come il primo episodio del contrasto fra vecchia e nuova cultura del restauro. Da una parte il tentativo del tedesco Vermeheren di introdurre a Firenze criteri di pulitura per quanto possibile obiettivi, dall’altra le resistenze della tradizione amatoriale ottocentesca così ben rappresentata dal Cavenaghi, preoccupata della necessità di una presentazione comunque equilibrata e gradevole dell’opera restaurata. In pratica la disputa del 1910 segnava l’emergere ufficiale di due atteggiamenti teorici che hanno entrambi, a ben guardare, la loro legittimità e che attraverseranno con formulazioni diverse e polemiche in più occasioni rinfocolate, l’intera vicenda del restauro pittorico nel nostro secolo (23).
Vedremo anche, ma questo sarà argomento dei capitoli seguenti, come caratteristica saliente della scuola fiorentina di restauro, almeno nei suoi momenti migliori e da parte dei suoi operatori più avvertiti, sia stato proprio il tentativo di mediare quelle due fondamentali esigenze. Per ora basti sottolineare come il problema sia emerso per la prima volta con sufficiente chiarezza ed ufficialità proprio a Firenze, condizionando non poco gli svolgimenti successivi del restauro.
La fine del XIX secolo e l’inizio del XX segnano comunque un periodo di grande attività per gli operatori fiorentini. Fra gli anni della distruzione del centro storico - l’intervento di restauro igenico-puristi-co probabilmente più sciagurato della nostra epoca - e quelli della mostra dantesca del 1921-22, si moltiplicano a Firenze e in Toscana gli ateliers di restauro e acquistano notorietà e prestigio nomi destinati a rimanere nella storia del restauro moderno. Il pisano Guglielmo Botti che godette della fiducia di Cavalcaseli intervenendo, con molti apprezzamenti, sugli affreschi di Giotto ad Assisi, Domenico Fiscali che nel 1909 staccò certo troppo precipitosamente almeno a giudicare dall’aspetto attuale, gli affreschi di Paolo Uccello con il “Diluvio” e 1’“Ebrezza di Noè” nel Chiostro Verde di S. Maria Novella, optando invece qualche anno dopo (1915-16) per più cauti provvedimenti di consolidamento nel ciclo di Piero ad Arezzo e poi, ancora, Fabrizio Lucarini attivo soprattutto sui quadri di galleria e su alcuni dei massimi capolavori del Quattrocento toscano quali “l’Annunciazione” di Filippo Lippi in S. Lorenzo: amico di Cavenaghi, stimato da Pietro Toesca che gli dedicò un necrologio sinceramente ammirato, spesso richiesto di consulenze importanti e di interventi delicati specie nell’Italia del Nord, a Parma e a Mantova (24).
La notorietà di Lucarini si affida ad operazioni che richiedevano grande impegno tecnico e notevole intelligenza critica, come il trasporto dell’“Annunciazione” di Botticelli in S. Martino della Scala o l’accorta integrazione dei laterali mancanti nell’“Annunciazione della Vergine” del Beato Angelico del Convento di Montecarlo, nei pressi di S. Giovanni Valdarno. Quando nel 1907 fu richiesto di intervenire sulla grandiosa pala botticelliana già nella cappella dell’Arte della Seta in S. Marco, raffigurante “l’Incoronazione della Vergine”, è significativo e depone a favore del suo senso di responsabilità che dal consulto ministeriale al quale partecipò pure Cavenaghi, sia uscita la decisione di non procedere alla demolizione del supporto ligneo e al trasporto del colore ma di limitarsi a fissaggi parziali delle superfici e a integrazioni imitative delle parti mancanti.
La situazione di dissesto di quella tavola, con movimenti della preparazione e sbollamenti del colore, era ed è ancora gravissima, ma se oggi, nel laboratorio fiorentino della Fortezza da Basso dove è ricoverata, si può sperare in un consolidamento dèi colore ragionevolmente affidabile, grazie all’impiego di materiali e di tecniche di sperimentata efficacia, ciò è reso possibile dalla decisione di non trasporto presa quasi ottanta anni fa (25). Questo, di Lucarini e di Cavenaghi, è un esempio apprezzabile di restauro già “moderno”, almeno per quanto riguarda il senso di responsabilità e il rispetto dell’opera d’arte. In generale però, fra Ottocento e Novecento, la situazione del restauro italiano giustificava largamente le preoccupazioni degli studiosi e dei conoscitori più avvertiti. A rileggere, più di cento anni dopo, l’aureo saggio di Cavalcaseli sulla “Conservazione dei monumenti e degli oggetti di belle arti...” (ristampato a Roma nel 1875 ma già edito nel 1863 all’indomani dell’unità d’Italia) si capisce bene quale distanza separasse le attese e le speranze della moderna scienza storico artistica di cui Cavalcaselle in Italia era protagonista e battistrada, e la realtà del restauro a lui contemporaneo. Il fatto che il grande critico sia costretto ad insistere sulla inopportunità delle integrazioni e delle ridipinture perché è meglio "... per l’intelligente e per lo studioso una pittura deteriorata o mancante di alcuna parte, che una pittura terminata o rinfrescata dal restauratore che finisce per essere né opera antica né opera moderna”, la dice lunga sui metodi di restauro in uso nel XIX secolo i26).
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