gli Aranci alla Badia Fiorentina. E poi, ancora, “l’Inferno” di Nardo di Cione dalla cappella Strozzi di S. Maria Novella, il più grande affresco mai staccato in un unico pezzo (12 metri di altezza per quasi nove di larghezza) e “l’Ultima Cena” (di poco meno grande) di Taddeo Gaddi dal Cenacolo di S. Croce. C’era persino, integralmente ricomposto e montato con tutte le “Storie del Battista”, l’intero Chiostro dello Scalzo; e raramente allestimento ha sortito effetto più sconcertante di quello offerto da un interno monumentale della Firenze turistica più conosciuta trasferito come per magia dentro la scenografia effimera di una mostra. Se si pensa che la sezione affreschi di “Firenze restaura” era anche il terminale di arrivo della mostra itinerante “The great age of Fresco” e che la selezione migliore di quei capolavori staccati trovò lì, finalmente, meritato anche se temporaneo riposo dopo aver girato da New York ad Amsterdam, da Londra a Monaco, da Bruxelles a Stoccolma, da Copenaghen a Lugano, da Parigi a Milano, si capisce bene che mai più si sarebbe ripetuta l’occasione di trovare raccolta nello stesso luogo una così numerosa e quasi surreale antologia dei “muri dipinti" fiorentini.
Le ultime sale di “Firenze restaura” si chiudevano, velocemente e in modo abbastanza sommesso, con una breve campionatura degli interventi eseguiti sulle sculture e sugli oggetti di arte minore. C’era stata, qualche anno prima, la mostra al Bargello e questa è la ragione principale della scarsa rappresentatività riservata a questa sezione del restauro. Ciò nonostante il visitatore poteva imbattersi in capolavori straordinari e pochissimo noti di plastica rinascimentale, restituiti all’ammirazione e allo studio dopo accurati interventi di pulitura. Basti citare, per tutti, la “Madonna con Bambino”, terracotta policroma della chiesa fiorentina di Ognissanti, attribuita a Nanni di Bartolo nel momento della sua massima adesione ai complessi pensieri di Jacopo della Quercia e di Donatello, e il S. Giovanni Battista ligneo di S. Romolo a Bivigliano, capolavoro quasi sconosciuto di Michelozzo di Bartolomeo. Un occhio di riguardo era infine riservato, e comprensibilmente, all’attività dell’antico Opificio delle Pietre Dure di cui Umberto Baldini aveva appena assunto la direzione e che si apprestava a diventare la casella giuridica utile per inserirvi il laboratorio di restauro della Soprintendenza, portandolo all’auspicata autonomia amministrativa. Ma di questo avremo occasione di parlare ancora. Intanto, al giugno del 1972, “Firenze restau-
ra” chiudeva con largo successo di pubblico mentre il laboratorio di restauro fiorentino toccava il punto più alto della notorietà nazionale e internazionale.
Naturalmente una iniziativa di quella complessità e importanza non poteva non esporsi a critiche ed oggi, a 15 anni di distanza, riusciamo a valutare con diversa consapevolezza i suoi aspetti più effimeri e più datati: la grande “kermesse” degli affreschi staccati, per esempio, e - per quanto attiene il tono e il gusto - l’esaltazione probabilmente in eccesso e un compiacimento altrettanto sopra le righe sui successi, pure importanti e innegabili, delle campagne di restauro post-alluvionali. Chi usciva dalla mostra, in quel lontano 1972, se ne tornava a casa con la convinzione che i guasti dell’alluvione al patrimonio culturale fiorentino fossero stati brillantemente riparati o che, in ogni caso, si avviassero ad esserlo con rapidità. Oggi sappiamo bene quanto quella opinione fosse immotivata; non c’è dubbio tuttavia che “Firenze restaura” con il suo colossale apparato espositivo, con l’esibizione di un attivismo ottimistico ed auto celebrativo, orientasse decisamente in quel senso.
Soprattutto la mostra della Fortezza poneva alla moderna riflessione sul restauro problemi gravi che restavano però senza risposta.
Nel 1974, in un articolo su “Paragone” Werner Oechslin accennando a “The Great Age” e a “Firenze restaura” si chiedeva se, al di là della bravura tecnica dimostrata dagli operatori fiorentini, il problema degli affreschi staccati e del loro rapporto con l’ambiente fosse stato valutato sufficiente-mente e, ancora, se il restauro di recupero (il riferimento alla Madonna duecentesca del manifesto era inevitabile) non fosse anch’esso, quando portato oltre certi limiti, una forma di “pastiche”, come lo è, al polo opposto, il quadro primitivo integrato e aggiornato (8 . In sostanza la mostra del ’72 non offriva, secondo l’Oeschlin, “nè conclusioni finali nè riflessioni di vasta portata” ed era soprattutto criticabile perché aveva rinunciato “a favorire una discussione dei nuovi problemi del rapporto opera d’arte - contesto originale e storico”.
E difficile non consentire con queste considerazioni, le quali, mentre non mettevano in discussione la qualità tecnica del laboratorio fiorentino nè contestavano l’importanza di una rassegna che restava, in ogni caso, unica e memorabile nel mondo, sottolineavano tuttavia i rischi di una operatività talora fine a se stessa e i limiti di una cultura del restauro non sempre adeguatamente rapportata alla
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