GEROLAMO GIOVENONE. San Gervasio, n. 321, 1530 circa.
Carboncino e matita nera; è composto da tre fogli preparati, 128 x 55,5 cm.
Il cartone n. 321, e il suo simmetrico ». 339 raffigurante san Protasio, sono preparatori per le corrispondenti tavole conservate alla Auckland City Art Gallery in Nuova Zelanda, colà pervenute da Londra in quanto vendute da Federico Pezzi ad Emanuele d’Azeglio, allora ministro d’Italia presso la Corte britannica. I due pannelli facevano parte di un trittico la cui tavola centrale raffigurante Sant’Ambrogio in cattedra è ancora conservata presso la chiesa di san Francesco a Vercelli. Il lavoro è assegnabile a Gerolamo Giovenone (Barengo 1490-Vercelli 1555) ad una data attorno al 1530; a sostenere la datazione, basata sui confronti di carattere stilistico, concorre il documento del 29 dicembre 1521 (pubblicato da G. Colombo, 1883, p. 280/283) relativo alla commissione a Gerolamo Giovenone di un trittico per la cappella della Congregazione di Sant’Ambrogio nella chiesa vercellese di San Francesco, i cui documenti di pagamento si protraggono fino al 1535. Anche i due cartoni sono ascrivibili alla sua attività per il disegno sottile e netto che appiattisce la figura, conferendole un aspetto dolcemente malinconico. La stesura pittorica del trìttico, in maggior misura rispetto ai cartoni preparatori, e in particolare le forme più piene e solide del Sant’Ambrogio, indica una aperta attenzione di Gerolamo Giovenone verso le forme della cultura figurativa gaudenziana, in un momento prossimo agli affreschi di san Cristoforo a Vercelli. È infatti il periodo di una stretta vicinanza tra i due pittori: come prova l’atto notarile del 21 giugno 1529, che affida il lavoro di san Cristoforo a Gaudenzio Ferrari, in cui Giovenone compare come garante.
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GEROLAMO GIOVENONE. Madonna con Bambino e i santi Lorenzo, Giovan Battista, Sebastiano e Francesco, n. 357, 1535-1540.
Carboncino, gesso e acquerello; è composto da sei fogli di misura omogenea, 110 x 120 cm.
Pare che in epoca antica il cartone assumesse l’incongrua destinazione a paracamino, come lasciava intravvedere la sagoma mìstilì-nea prima dell’intervento di restauro voluto da L. C. Bollea (1932, p. 466). Il disegno, seppure in mancanza di un documento che confermi i dati stilistici, deve essere collocato nell’attività più avanzata di Gerolamo Giovenone, come si può desumere comparando le opere nella sacrestia del Duomo di Biella o conservate al Museo Rumiatzeff di Mosca. E uno dei pochi casi, tra il nucleo dei 59 cartoni della Accademia Albertina, per cui non è stato rintracciato il dipinto che traduce in pittura la composizione. Come nelle due opere della scheda precedente, anche in questo caso Gerolamo Giovenone guarda alla pittura di Gaudenzio Ferrari, il quale a questa data (dopo il 1535) non offriva più un esempio immediato, ma una calma meditazione sulle opere che aveva lasciato a Vercelli dopo il suo allontanamento dalla città.