GERHARD EVERS E JEAN CAPART: LA CRITICA DELL’ARTE EGIZIA
Si è visto che un’abitudine mentale ritardò di anni il deciframento della scrittura degli Egizi; una simile abitudine intralciò per un secolo la comprensione della loro arte figurativa.
Gli scultori greci infatti s’impegnarono costantemente nel riprodurre sempre meglio le forme anatomiche dell'uomo e a ripeterne gli atteggiamenti varianti per una gamma senza limiti. Similmente i pittori perfezionarono man mano la rappresentazione della realtà quale percepita dall’organo visivo in prospettiva. Per di più codificarono ambedue le tendenze in una dottrina secondo cui l’arte doveva essere «naturalistica». Le stesse tendenze e la dottrina valsero sino ai nostri giorni, sino all’avvento delle correnti artistiche e delle teorie che hanno di recente caratterizzato la critica d'arte. Per contro la statuaria egizia che chiameremo classica - vedremo fra poco il perché di questa precisazione - intese a geometrizzare a squadri il corpo umano o animale, atteggiandolo in un numero limitato di positure canoniche; a sua volta la pittura raffigura le cose secondo un sistema proiettivo pure geometrizzante.
Di conseguenza, per secoli, non si seppe «vedere» l'arte egizia: ne danno prova le statue egittizzanti romane e le riproduzioni a disegno di statue egizie riportate nelle nostre pubblicazioni fino all'Ottocento, che appaiono immagini deformate secondo modi ellenici e in definitiva quasi
caricature degli originali. Il primo passo verso una
chiarificazione in tal campo fu compiuto da JohannJoachim Winckelmann, che nella sua Geschichte derKunst des Altertums, 1763, distinse lo stile egizio da quello greco e romano. Tuttavia il vantaggio che sarebbe potuto venire da tal proposizione uscì praticamente annullato, in quanto lo stesso Winckelmann disegnò la storia dell’arte come una parabola unica, in cui, all'inizio del ramo ascendente stava l’arte egizia, ritenuta primitiva e imperfetta, all’apice l’arte greca, e nel ramo discendente quella romana.
Più tardi lo Champollion ruppe quel diagramma evolutivo: nel 1824, dinanzi ai capolavori appena giunti a Torino dalla Valle del Nilo, affermò vigorosamente e ripetutamente - in diverse lettere inviate al fratello - che l’arte egizia doveva considerarsi autonoma, progrediente per un suo proprio cammino, e non certo inferiore, nei suoi prodotti migliori, alla greca. Formulò siffatta opinione, mosso da una geniale intuizione, ma in seguito, quando cercò le ragioni della sua ammirazione, ripiegò sulle posizioni del Winckelmann.
Confermò poi quel giudizio negativo uno studioso danese, Julius Lange, nel 1892, affermando che la statua «primitiva», e insieme quella egizia, obbedisce a una «legge di frontalità», e ciò a causa d’incapacità dell’artista nel rappresentare la Natura.
Jean Capart (1877-1947). Laureatosi in Legge all'Università di Bruxelles, ancora giovanissimo si dedicò allo studio dell'antico Egitto, a Bonn con il professor A. Wiedemann e poi con altri tra i quali G. Maspero. Le sue opere riguardano soprattutto l'arte e le arti applicate. Nel
1923, durante il viaggio in Egitto della regina Elisabetta e del principe Leopoldo accompagnati da lui per assistere all'apertura della camera sepolcrale di Tutankhamen, fondò la «Fondation Egyptologique Reine Elisabeth». Dal 1937 si occupò degli scavi di el-Kab.