ruolo autoritativo dello Stato (primo tipo), così come rende sempre meno perseguibile la strategia dell'incorporazione (secondo tipo), in quanto presuppone un'ulteriore espansione della sfera pubblica. La regolazione pubblica del terzo settore si deve dunque sviluppare soprattutto in forme indirette, attraverso strumenti meno globalizzanti e più diversificati, che favoriscano l'adozione di strategie contrattuali e consensuali. In questo mutato contesto sarebbe irrealistico attenderci che la regolazione del terzo settore venga identificata nella costruzione di un modello statico, pur se equilibrato ed armonico, dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata. La forma di tali rapporti è infatti variabile a seconda dei settori e delle attività, e deve mantenere la necessaria flessibilità per potersi adattare ai continui ed imprevedibili mutamenti. Lo sviluppo dei rapporti pubblico/privato, in questo quadro, avviene dunque sotto il segno della flessibilità e della regolazione indiretta, mirante non alla costrizione quanto alla divisione e alla negoziazione delle responsabilità e delle competenze. Ciò che appare superata oggi è l'idea di un «modello ottimale». Esso derivava dalla presunzione, oggi pressoché irrealizzabile, che fosse possibile perseguire un governo globale e unificato delle attività gestite da una pluralità di organizzazioni e di agenzie. La crescita di un terzo settore non regolabile tramite alcun «trattamento» uniforme, se da un lato costituisce un segno della crisi forse irreversibile di una politica di welfare a netta dominanza pubblica, dall'altro mostra l'esigenza che ad essa subentri una capacità di regolazione più sofisticata e «soft», meno preoccupata di vincolare e di controllare e più attenta ad individuare e valorizzare le virtù private che operano nella società civile. 34