regime fondato sulla complementarietà e l'interdipendenza dei diversi interventi. Il riconoscimento dell'autonomia amministrativa degli enti privati è cioè avvenuto nel quadro di un accordo «corporativo» che attribuisce un ruolo sussidiario o complementare all'attività privata. Nel nostro paese il settore privato - soprattutto nel campo dell'assistenza, della sanità e della formazione professionale - ha invece perduto ben presto la sua autonomia finanziaria e giuridica, finendo per costituire un canale di erogazione di prestazioni parallelo a quello pubblico, spesso sovrapposto ad esso, non soggetto ad alcun controllo di merito, e al tempo stesso ampiamente sostenuto dalla spesa pubblica. Uno dei fattori decisivi che spiegano questa evoluzione «clientelare» del nostro modello di welfare è costituito dall'ampio controllo esercitato sulle istituzioni private dalla Chiesa Cattolica. Tale predominio ha senz'altro compromesso lo sviluppo di un sistema effettivamente pluralistico composto da enti privati autonomi e legittimati dall'efficacia della loro attività4. La distanza ideologica e culturale a lungo esistente tra le istituzioni private-religiose e quelle pubbliche, se da un lato non ha evitato la diffusione di un'ampia area di sostegni e di favori reciproci, dall'altro ha contribuito allo sviluppo di un sistema dualistico e frammentato, ricco di sovrapposizioni e carente di linee programmatiche comuni. Questa impostazione non ha subito modifiche sostanziali nonostante i tentativi di riforma messi in atto nel dopoguerra, soprattutto nel decennio Settanta. In via di principio già la Costituzione italiana del 1948 ha offerto le basi giuridiche per la formulazione di una politica sociale non fondata sulla discrezionalità delle prestazioni quanto su diritti predeterminati e generati dallo status di cittadini5. Tuttavia, i tentativi di trasformazione prendono avvio soltanto a partire dalla fine degli anni Sessanta. Essi insistono sulla necessità di superare la logica particolaristica e corporativa dominante elevando il grado di regolazione pubblica delle politiche sociali (confidando anche sulla possibilità di realizzare un controllo «dal basso» dei programmi e delle gestioni) e contemporaneamente favorendo la crescita di una rete di servizi collettivi decentrati sul territorio6. La sfera dell'intervento pubblico, pur in presenza di un quadro normativo non del tutto compiuto (manca ancora, per esempio, la legge-quadro per l'assistenza già prevista dal Dpr n. 616/1977), subisce ora un notevole allargamento, a cui corrisponde una progressiva generalizzazione ed un accresciuto automatismo delle prestazioni 40