CRISI STRUTTURALE
di
Giampiero Franco (*)
      Occorre dire anzitutto che man mano che il tempo passa e non diversamente da altre crisi che nel dopoguerra investirono l’economia italiana, si va diffondendo, non solo tra gli economisti, ma anche nella opinione pubblica, la sensazione che gli argomenti strutturali siano ormai prevalenti su quelli di periodo breve sia a livello di diagnosi sia a livello di terapia. Per di più si deve aggiungere che il ritardo accumulatosi nell’affrontare i problemi di struttura, di fronte a una sfida delle dimensioni e della complessità di quella lanciata da vari punti nel 1969-70, ha ristretto ormai in modo drastico i margini di libertà delle scelte di politica economica i cui errori possono essere sempre minori e con conseguenze sempre più gravi di ristagno e di isolamento dalla comunità internazionale. Detto in altri termini, se la risposta alla sfida sarà riduttiva, priva di fantasia e di impegno civile da parte dei vari gruppi sociali, di semplice ripristino del meccanismo di crescita passato senza i necessari salti di qualità, finiremo per assestarci su livelli di reddito inadeguati alla risoluzione dei molteplici problemi, nella posizione che pesantemente fu definita di fanalino di coda della comunità industriale internazionale.
      Se questo volesse almeno dire rinuncia alla logica competitiva del mercato internazionale per più elevati livelli di benessere sociale e una più equa distribuzione del reddito interno, potremmo anche adattarci: ma sappiamo che questa è una illusione e che la nostra classe politica, burocratica, imprenditoriale, sindacale non ha la forza per impostare un modello del genere socialmente efficiente; sarebbe — sia detto senza disprezzo — la balcanizzazione dell’Italia, il paternalismo autoritario senza la democrazia, lo spreco eretto a sistema senza nessun meccanismo correttivo, nemmeno volontaristico.
(*) Università di Venezia, Ca’ Foscari, Dipartimento di metodologie della program-
mazione.