possibile e incline al mantenimento della cornice del liberismo, la Common Law, cioè il diritto consuetudinario, non dava spazio alla possibilità di far sorgere dei «cartelli» fra imprese, programmaticamente orientati a far blocco nella promozione di un assetto compatto di interessi. Ciò in pratica significava che chi voleva apparentare tra di loro delle aziende non aveva aperta che la strada delle fusioni, con gli ingenti costi finanziari che questo processo comportava. Antitetica e originale, in campo europeo, la via seguita dalla Germania guglielmina. Qui non solo i «cartelli» erano del tutto leciti, ma il governo e la giurisprudenza incoraggiavano la formazione di grandi complessi finanziari e industriali integrati, facendo dell'alleanza fra la banca e l'impresa e della formazione di strutture consortili la chiave di volta strategica per il rafforzamento dell'economia nazionale. Prendevano così consistenza i contorni di un capitalismo che, a partire dagli anni venti del nostro secolo, alcuni avrebbero etichettato come «organizzato», allo scopo di porne in risalto il grado elevato di coesione sistemica. ^ a notare come, proprio jj nel 1897, quando l'alta corte tedesca riconosceva definitivamente la legittimità dei «cartelli^, negli Stati Uniti la Corte Suprema riconfermava la validità dello Sherman Act, la legge che nel 1890 aveva accolto e istituzionalizzato l'orientamento antimonopolistico presente in larghi settori della vita pubblica americana. Lo Sherman Act, che verrà applicato agli inizi del Novecento e in particolare negli anni Dieci, durante la presidenza di Theodore Roosvelt, poneva dei limiti alle intese e alle fusioni tra le società. Esse potevano venire sciolte quando si configurassero come delle vere e proprie pratiche di monopolio, tendenti a mettere fuori gioco la concorrenza fra una pluralità di operatori e soggetti economici, con discapito sia dei produttori che dei consumatori. A volere lo Sherman Act erano stati numerosi imprenditori piccoli e medi, attivi e influenti soprattutto nelle regioni del Mid-West degli Stati Uniti, dove essi occupavano dei posti di rilievo nella politica e nell'amministrazione. Contemporaneamente, incominciavano le grandi campagne giornalistiche contro i robber barons, i magnati delle grandi corporations, accusati di tramare ai danni dei loro concorrenti minori e del pubblico americano. 0 n Italia? L'Italia in questo /m periodo era ancora piuttosto lontana da simili preoccupazioni, perché la nostra base industriale era in corso di costituzione. All'inizio del Novecento e, grosso modo, fino alla grande crisi degli anni Trenta, tuttavia, il modello prevalente sembrava non distantissimo da quello tedesco, grazie all'apporto determinante delle banche cosiddette «miste», sorte proprio grazie ai capitali germanici. Di qui l'esistenza di pacchetti azionari «incrociati" fra banche e imprese, al fine di alleviare le difficoltà di finanziamento dell'attività industriale e di espanderne le dimensioni. I crolli degli anni Trenta e la fondazione dell'Iri misero però fine a questa situazione. Di una vera e propria legislazione rivolta contro le concentrazioni monopolistiche si parlerà soltanto alla metà degli anni Cinquanta, quando il tema verrà sollevato da un economista radicale, Ernesto Rossi, che si considerava erede delle battaglie d'opinione condotte da Luigi Einaudi ai primi del secolo contro i «trivellatori della nazione» (i gruppi siderurgici e zuccherieri). Ma per arrivare all'attivazione dei primi strumenti di intervento, bisognerà lasciar passare ancora più di Trent'anni. Mimica Dengo 7