quell'anno nacque lo stabilimento di Termini Imerese in Sicilia, un insediamento da tremila dipendenti. Fu quello l'inizio di una progressiva espansione nel Mezzogiorno. Infatti l'anno successivo seguì Brindisi e due anni più tardi fu la volta degli stabilimenti di Sulmona, Termoli, Cassino, San Salvo (Abruzzo), Lecce. Nel 1973 seguirono gli insediamenti di Pomigliano e nella seconda metà degli anni Settanta la Sofim di Foggia e la fabbrica di Valle Ufita in Campania. Insomma nel 1980 la Fiat era già una realtà del Mezzogiorno più di quanto non lo fosse stato nei precedenti ottant'anni della sua vita. Nel 1991, infine l'annuncio di Melfi seguito un anno dopo dalla chiusura di Chivasso. ¿«^ Gli esperti sanno che una fabbrica di automobili - salvo interventi massicci e per molti versi antieconomici - vive mediamente sessantanni: è stato così per Lingotto che, nata nel 1922, ha chiuso i battenti nel 1983 per poi essere trasformata da insediamento storico di casa Fiat in contenitore per manifestazioni fieristiche, centri di ricerca e altro ancora. Una qualsiasi altra ristrutturazione per conservare al fabbricone di via Nizza l'originario ruolo sarebbe stata impensabile sotto un profilo economico. Inaugurata nel 1939 e destinata ad ospitare circa la metà dei cinquantamila dipendenti di allora la Mirafióri avrà sessant'anni allo spirare del secolo. Sarà ancora la Grande Mirafióri cuore dell'impero Fiat? Improbabile e non soltanto per le ragioni che oggi adducono coloro che con estrema superficialità parlano di una Fiat venduta ai giapponesi o di una Fiat determinata a trasferirsi armi e bagagli nel Mezzogiorno. La verità è che, indipendentemente dai discorsi che va ripetendo Corso Marconi da anni, quando si tratterà di investire massicciamente non per un qualche ammodernamento - cosa che sta già facendo - ma per sostituire un impianto obsoleto a quel punto la scelta non ricadrà più su Mirafióri e neppure su altre aree del Nord. Questo è un fatto che molti sanno e fingono di non sapere. Il discorso è assai complesso. Da alcuni mesi ha cominciato a circolare la voce riguardante un piano che la Fiat avrebbe preparato con riferimento alle sue future dislocazioni strategiche in Italia. In sintesi. Previsioni attendibili indicano per il 1996 una produzione automobilistica Fiat di poco inferiore ai 2 milioni di vetture di cui un 62% negli stabilimenti del Sud e il resto al Nord. Lo spostamento dell'asse di interesse sarebbe in fatto avvenuto e del resto la Fiat non ha mai fatto mistero della sua propensione a rivolgersi al Sud a partire dall'infelice scelta di Rivalta negli anni Sessanta. Quando alla vigilia dell'insediamento di Melfi si presentò il problema la Fiat disse che aveva avuto offerte per andare in Portogallo e in Grecia e che invece aveva optato per il Mezzogiorno nonostante non fosse questa la più economica delle opzioni. E vero. Ciò che col passare del tempo appare meno vera è l'affermazione, fatta sempre in quell'occasione, secondo la quale l'insediamento di Melfi sarebbe stato aggiuntivo e non sostitutivo. Ora i conti dicono che non sarà così. La Fiat non incrementerà la sua produzione, cosa che sarebbe insensato in una prospettiva di mercato europeo non in crescita tale da giustificare grandi sconvolgimento dei numeri. Del resto la Comunità economica europea non appena è stata avviata la pratica Fìat, a differenza di quanto ha tentato poi di insinuare la Lega nei suoi furori razzisti, non si è premurata di stabilire dove e come sarebbe nato il nuovo insediamento, ma ha cercato di appurare se questo non avrebbe fatto aumentare la capacità produttiva dell'industria automobilistica comunitaria. Ora, se ciò è vero, e lo è, è impossibile ipotizzare uno stabilimento al Sud in aggiunta a quelli del Nord. Dopotutto la chiusura della Lancia di Chivasso ha dimostrato che le cose vanno in tutt'altra direzione. Da almeno un paio d'anni si sente parlare ^ W con sempre maggiore insistenza di un accordo tra la Fiat e i giapponesi non si è capito bene di quale potentato dell'auto. Tra smentite, voci e indiscrezioni più o meno pilotate è difficile districarsi. E possibile che qualcosa possa verificarsi in quella direzione ancor prima della pubblicazione di questo articolo. Quel che è certo è che la sostanza non cambia per quanto attiene alla sorte di Torino. Con o senza i giapponesi nella Fiat, questa è una città che mostra segni preoccupanti di declino. Il fenomeno è tutt'altro che nuovo. Gli osservatori meno distratti o superficiali avrebbero potuto cogliere sintomi sufficientemente chiari già verso la metà del 1991 per non parlare del lungo decennio precedente trascorso in una soporifera illusione di benessere. Quasi che la congiuntura positiva di quegli anni fosse destinata a durare in eterno. Non ci si rese conto che s'erano perse parecchie occasioni e che Torino aveva smesso di crescere, non attirava più iniziative, era diventata una specie dì finis terrae dell'economia che soltanto la retorica di qualche politico imbroglione o sprovveduto continuava a definire cerniera dell'Italia con l'Europa e altre amenità di questo genere. Nel licenziare uno dei migliori bilanci della Fiat due anni fa l'avvocato Agnelli disse che la festa era finita alludendo alle nubi che si addensavano all'orizzonte della nostra economia. Il messaggio venne allora interpretato come una battuta sulla quale si divertirono per qualche mese soltanto i giornali. Un anno dopo lo stesso Agnelli parlò di «un mal di testa» alludendo sempre alla situazione economica del Paese che aveva già cominciato a mostrare qualche vistoso cedimento. Ma anche in quell'occasione si scelse la politica dello struzzo. Esattamente come prima. Eppure sarebbe stata sufficiente una onesta analisi per rendersi conto che il mal di testa del Paese a Torino era un male più serio già da parecchio tempo. Proviamo ad andare XM indietro di qualche anno. Torino aveva assistito da poco allo scontro tra Fiat e sindacati dell'autunno 1980 allorché il Pei organizzò un'importante dibattito sul terziario avanzato come una delle possibili alternative all'industria dell'automobile. Ancorché in ritardo rispetto ad altre aree europee poteva essere quella una buona partenza verso il riequilibrio industriale di un territorio da decenni sottoposto al predominio dell'automobile. In fondo la vicinanza della Olivetti di Ivrea e della Sorin di Saluggia avrebbero potuto facilitare la costituzione di un polo tecnologico capace di dare risultati migliori di quanto non abbia poi fatto una Tecnocity rimasta pietrificata nei mille dibattiti sull'argomento. In quegli anni di vuote illusioni comparve anche la stella cometa di Mi-To una 2