aumentano entrambi; nel PSI ad un netto incremento di voti corrisponde un lievissimo calo di preferenze medie. La constatazione è confermata dalle ultime elezioni: la percentuale di elettori che hanno utilizzato la preferenza unica non è molto diversa sia che il partito incrementi voti (PSI), sia che ne perda ma in misura sensibilmente differente (DC e PCI-PDS), ed anche gli elettori della Lega sembrano coerenti con il quadro generale. Se questo è il dato, risulta difficile formulare l'ipotesi che la crisi dei partiti tradizionali selezioni nettamente i loro elettori, nel senso che quelli che restano fedeli sono i più informati, politicizzati, attenti alle rispettive dinamiche interne, quindi più propensi all'uso massiccio e duttile del voto di preferenza. Mi sembra invece più plausibile sostenere che la configurazione via via assunta dal voto di preferenza rafforza l'ipotesi che le specificità delle culture politiche si vadano effettivamente ridefinendo per linee inteme ed esterne agli schieramenti elettorali. Da un lato, ovviamente persistono; dall'altro, è evidente la tendenza ad adottare comportamenti generali omogenei; da un altro ancora, le differenze di cultura politica non dividono più nettamente i partiti fra loro (se mai è stato davvero così), ma coesistono all'interno dei singoli elettorati e, probabilmente, gli stessi flussi di voti fra partiti contribuiscono a ciò osmoticamente6. Allo stato delle conoscenze di tali fenomeni, il condizionale è tuttavia d'obbligo. Qualche dato ulteriore ci convince però che l'ipotesi è quella giusta. Osservando la tab. 2, è facile constatare che tra il 1983 ed il 1992 gli eletti nelle singole liste concentrano una quota elevata e (tranne per il PCI- PDS) crescente delle preferenze totali (DC: dal 66,5 all'80,8%; PSI: dal 56,9 al 76,8%; Lega: 70,4%; PCI- PDS: dal 74,6 al 66,7%). Ciò dipende dal fatto che la concorrenza infrapartitica, per quanto accesa, non è indifferenziata (tutti contro tutti), ma seleziona a priori un lotto ristretto di concorrenti con reali possibilità di vittoria. Tale lotto (l'area di concorrenza infrapartitica), come si deduce dagli scarti fra eletti e primi esclusi, può essere più ampio (DC, PCI) o più ristretto (PSI, PDS, Lega), ma esiste comunque. Non sappiamo in che misura ciò dipenda dalle strategie di mobilitazione dei voti organizzati ad opera delle macchine elettorali o sia anche il risultato di una razionalità diffusa fra gli elettori. Sta di fatto che il voto a preferenza unica accentua semplicemente la tendenza già in atto a razionalizzare (restringendola) la competizione infrapartitica. Il PCI-PDS va apparentemente in controtendenza poiché la quota di preferenze concentrata negli eletti si riduce anziché aumentare. Si tratta in realtà dello stesso movimento di fondo, che produce esiti diversi solo per la particolare fase di transizione che investe tale universo elettorale. Tradizionalmente, nel PCI razionalità d'apparato e razionalità degli elettori coincidevano, per cui la concorrenza infrapartitica era ridotta al minimo. Sappiamo però che la capacità dell'apparato di controllare il voto di preferenza andava scemando. Con la preferenza unica e in congiuntura elettorale sfavorevole, le due razionalità sono tornate - per ragioni diverse che in passato - ad incontrarsi, sia nei comportamenti tradizionali (il sostegno massiccio al capolista) sia in quelli emergenti (la comparsa della concorrenza interna e il sostegno selettivo ai candidati). Gli elettori della Lega non si comportano del resto diversamente: le logiche dal basso (simboliche e di «movimento») si traducono sia in sostegno diffuso ai leader sia in sostegno selettivo a personalità locali, senza contraddizioni con le opzioni proposte dall'organizzazione. jto Ribadiamo allora il nocciolo della questione: il sistema a preferenza unica accentua la tendenza, già ben presente, alla razionalizzazione della concorrenza infrapartitica (in particolare ne riduce ulteriormente le dimensioni), e il voto di preferenza si muove complessivamente in sintonia con le dinamiche interne agli apparati di partito. Agli argomenti già esposti, aggiungo qualche considerazione sui dati disaggregati dei singoli candidati (tab. 2), che evidenziano ulteriormente sia le analogie sia le differenze fra i vari elettorati. Più che alle cifre assolute (che scontano il passaggio della preferenza multipla a quella singola, falsando quindi la prospettiva), conviene guardare alle percentuali. La riduzione dell'area di concorrenza infrapartitica è bene illustrata sia dall'aumento della percentuale media di preferenze degli eletti, sia dal modificarsi degli scarti fra eletti e primi esclusi. Come è noto, se la preferenza multipla consentiva combinazioni, alleanze e cordate, conferendo risorse aggiuntive anche a candidati di secondo piano, con la preferenza unica ciò diventa impossibile. Nel PSI, la concentrazione delle preferenze su pochi candidati era già ferrea, ma adesso diventa molto netta anche per la DC, il PDS e la stessa Lega: lo scarto rispetto agli eletti si verifica infatti sin dai primissimi esclusi. Come dicevo prima, accanto a queste analogie (ed altre: in questa sede non possiamo approfondire), che confermano ulteriormente l'esistenza di vasti processi di omogeneizzazione delle culture politiche diffuse, la preferenza unica rivela anche controtendenze (o resistenze?) che mantengono relativamente differenziati gli elettorati dei diversi partiti. In generale, sappiamo già che gli elettori de e socialisti producono complessivamente più preferenze e le concentrano di più. Considerando più nel dettaglio le graduatorie dei candidati, possiamo aggiungere qualche ulteriore specificazione. Ad esempio, nel PSI e nella DC, partiti politicamente più compositi e a forte concorrenza interna, continua a non pesare il fenomeno del capolista, mentre per il PDS - anche (o almeno) in questo legittimo erede del PCI - e per la Lega conta invece moltissimo (curiosamente, i rispettivi capilista hanno ricevuto la stessa esatta percentuale di preferenze: 42,15%). Un altro aspetto che accomuna gli elettori democristiani e socialisti, differenziandoli da quelli del PDS e della Lega, è il fatto che i primi due praticamente ignorano gran parte dei candidati (rispettivamente due terzi e tre quarti di essi ricevono mediamente lo 0,2 e 0,1% delle preferenze, in valori assoluti: 382 e 215 voti). Negli altri due elettorati invece anche i candidati meno votati ricevono quote apprezzabili di consensi, specie per il PDS (i due terzi dei candidati meno votati ricevono mediamente la rispettabile cifra di 1.380 preferenze, ossia lo 0,8%; 700 per la Lega, pari allo 0,5%). Questi ultimi dati suggeriscono una osservazione ulteriore, che propongo come molto provvisoria conclusione. Sin qui ci siamo soffermati