388 HELGA DITTRICH-JOHANSEN consentono di meglio delineare il confuso panorama ideologico e culturale cui faceva riferimento l’intellettualità femminile dell’epoca, costretta com’era a destreggiarsi tra il concetto autenticamente politico di femminismo e quello assai più moderato di femminilità. E comunque un fatto significativo, e come tale da evidenziare, che Teresa Labriola - insieme a poche altre protagoniste della passata stagione suffragista - continuasse a parlare di «diritti della donna»57, sia pure ricorrendo a contorti giri di parole per giustificare le proprie asserzioni in anni in cui da più parti si affermava che, per il carattere éli-tario del fenomeno stesso e per la sua incapacità di penetrare in profondità tra le masse, in Italia «il femminismo [era] rimasto lettera morta, perché la donna italiana, dotata di grandi qualità familiari, come l’abnegazione, il sacrificio e la devozione, [aveva] dovuto più tardi che in ogni altro paese occuparsi fuori della propria casa»58. Mentre sui periodici femminili, inclusi quelli che - come ^Almanacco» della Bemporad - si erano fatti sostenitori di una visione aperta e progressista del ruolo sociale della donna, si assisteva all’abbandono del precedente impegno politico per conformarsi alle posizioni ufficiali del regime, altri scritti e interventi contribuivano invece a mantenere un timido legame con il passato. Il termine femminismo, smorzato della sua carica eversiva, continuava ad essere pronunciato nei discorsi di intellettuali e conferenziere, ma congiunto ad aggettivi quali latino - italico - puro, in modo da assimilarlo il più possibile al culto fascista della romanità e alla celebrazione dei caratteri autenticamente nazionali. Senza dunque rinunciare al proprio stile di vita di donne emancipate e desiderose di prendere parte attiva al contemporaneo processo di modernizzazione in atto nei paesi occidentali, le intellettuali del ventennio ridimensionarono i toni rivendicazionisti di un tempo, venendo incontro al tentativo fascista di elaborare un mo- 57 Fiorenza Taricone, nel suo studio dedicato alla ricostruzione della biografia politica di Teresa Labriola, avanza l’ipotesi che la proclamata fede fascista potrebbe aver consentito alla giurista di ergersi a «trasmettitrice di alcuni temi essenziali dell’emancipazionismo: uguaglianza nella diversità, percezione della differenza sessuale in chiave di complementarietà e non sotto il segno della subalternità, elevazione morale e professionale della donna, educazione alle attività sociali». Un giudizio che ritengo valido e condivisibile, per quanto mi paia un po’ azzardata l’affermazione secondo cui Teresa Labriola si distinse per l’essere «una delle teoriche, se non la maggiore, dell’emancipazionismo femminista», tenendo conto del fatto che il suo rimase pur sempre un femminismo fortemente elitario, tale da porla in urto con le più note esponenti del movimento femminile socialista di inizio secolo. F. Takicone, Teresa Labriola cit., pp. 200 e 209. 58 V. Vaglia, La donna nel mondo moderno, «H Giornale della donna», n. 19, 1° ottobre 1931.