CARTEGGIO 55 o l'insieme di quelle altre forze possa concepirsi come qualcosa che interferisca o turbi. Il che, sempre rimanendo nel campo del ragionamento astratto, è «anche» vero e tutti gli economisti partono da quella premessa per discutere, ad es[empio], fenomeni di traslazione. Ma appunto in questo campo, delicatissimo sovra ogni altro, tende ad affermarsi (cfr. ultima edizione] del De Viti11 e talune cose mie citate nel noto articolo]) la veduta che i fenomeni di traslazione delle imposte non possono concepirsi, se non per ipotesi secondaria, come turbativi di un ipotetico equilibrio preesistente. Perché, in astratto, quell'equilibrio non può formarsi in virtù delle sole forze «individuali». Debbono considerarsi altre forze «collettive» o «coattive» simboleggiate nello stato, le quali insieme con le prime rendono possibili «produzione» «prezzi» ecc. ecc. Di qui la deduzione che, in teoria pura, è scorretto parlare dell'imposta come qualcosa che «cade su», che «distrugge» una ricchezza formata nel processo produttivo costrutto in base alle forze individuali. Sento bene che, in un mondo di ipotesi astratte, immaginate a scopo di ragionamento, possiamo mettere prima avanti uno strumento e ragionare su quello; e poi, in una seconda approssimazione, mettere innanzi altre ipotesi a complicare; e così via all'infinito, essendo innumerevoli le possibili complicazioni. Non mi pare, tuttavia, che in questo processo siano da trascurare i pericoli di enfasi posta sul simbolo o ipotesi o strumento usato «per il primo». La trattazione del problema centrale della traslazione delle imposte sembra in proposito illuminante. Mettendo avanti l'ipotesi delle forze individuali, si costruisce un'economia nella quale vengono fuori una certa produzione, certi salari, certi profitti, certe rendite ecc. ecc. Poi, al solito, vien fuori il bolide «imposta», ipotesi di seconda approssimazione, ipotesi perturbatrice; e si studiano gli effetti del bolide: prezzi mutati (spesso in più), profitti, salari, rendite (non di rado scemati). Studiando l'imposta come fatto «perturbante», quelle illazioni di profitti, salari, rendite in genere «scemati», saggi di interessi cresciuti, paiono logiche. Come uscirne e ritornare alla realtà, la quale realtà, cercai dimostrare, è che l'imposta, in cui economicamente finisce per un verso di assommarsi quel gruppo di forze dette stato, cresca e non diminuisca il reddito nazionale, cresca i salari e i profitti, diminuisca e non cresca il saggio dell'interesse? Per uscirne è necessario, fin dal principio, parallelamente o prima o dopo, non importa, supporre che quel gruppo di 11. Si tratta con ogni probabilità di: Antonio De Viti de Marco, I primi principii dell'economia finanziaria, Roma, Sampaolesi, 1928, pp. 400.