4. [A PROPOSITO DELLA SCELTA IN ITALIA TRA MONARCHIA E REPUBBLICA]
          nemmeno un tentativo di ribellione da parte delle camicie nere e della numerosissima burocrazia sindacale, dimostrò che la superstruttura fascistica e corporativa era una mera facciata, che non aveva fatto alcuna presa sul popolo italiano. Ma il merito del 25 luglio non fu né del popolo né dei partiti. Il popolo era, salvo pochi facinorosi ed alcuni profittatori, unanimemente contrario al regime. Ma non si ribellava. Gli operai delle città aspettavano ogni giorno che i contadini rispondessero colle forche a coloro che requisivano bestiame, cereali e altri prodotti della terra: ma i contadini seguitavano a portare la loro roba agli ammassi, nascondendo quella minor parte che potevano vendere con sicurezza sul mercato nero, in attesa del giorno in cui gli operai delle città fossero scesi sulle piazze a far la rivoluzione. Ma, nonostante gli incitamenti della radio di Londra, che tutti ascoltavano malgrado la minaccia di sei mesi di carcere e nonostante i foglietti di propaganda diffusi dai cinque partiti, nessuno si muoveva, aspettando che si muovessero gli altri. Il partito d’azione, composto quasi interamente di intellettuali della borghesia, che era quello che si agitava di più, proclamando la politica mazziniana dell’azione, da qualche osservatore scettico era stato denominato partito delibazione altrui’. Il solo che agì fu il Re. Quando si vide che il capo del fascismo si era lasciato metter fuori come uno scemo qualunque e che i 19 del Gran Consiglio, i quali aspiravano alla successione, erano rimasti con un palmo di naso, e tutta Italia applaudì al Re, il quale aveva manovrato bene ed aveva liquidato la brutta baracca fascista senza spargimento di sangue, fu agevole ed anche giusto dire che egli avrebbe potuto tagliar via la putrida escrescenza un anno o due prima: magari 19 anni prima, all’epoca dell’affare Matteotti.
              Ma nel 1924 molti pensarono, e qualche eminente uomo di parte liberale, forse il più eminente di tutti, disse che non sarebbe stato bene che l’esperienza fascistica finisse così presto: che gli italiani non sarebbero guariti dall’antica malattia di guardar sempre ad un salvatore, ad un taumaturgo, ad una formula provvidenziale, ad una rivoluzione rigeneratrice: che era perciò bene per il popolo italiano che l’esperienza fosse condotta sino alla fine, che era necessario che il fascismo affogasse sino in fondo nel fango (la parola adoperata dall’insigne uomo era assai più espressiva). Soltanto allora il popolo italiano avrebbe compreso quale era il fondo dell’abisso dentro il quale il fascismo precipitava il paese. Quel fondo del fango fascista era stato davvero toccato innanzi al 25 luglio 1943? Se ne può ragionevolmente dubitare. Si può cioè dubitare che gli italiani abbiano veramente compreso le ragioni per le quali il fascismo tanto facilmente era riuscito a guastare i cervelli e gli animi, sì da corrompere tutta la vita pubblica e da rendere im-
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