lavoro al suo tornio, alla sua fornace, al suo telaio, ai suoi attrezzi ma le cose, a farle come le ha viste fare a suo padre, costano troppo, non reggono la concorrenza e si deve pur vivere; spoglia di qua leva di là, semplifica questo elimina quello, quasi gli oggetti non li riconosci più ; deve risparmiare all’osso per resistere, ma suo figlio di certo non farà l’artigiano, se la lotta è così dura, e al diavolo i nidi degli uccelli, le figurazioni e le fontane d’amore. Ora noi siamo ben lantani dal voler negare il progresso e vorremmo vedere i più sperduti casolari muniti di bagno e di acqua corrente calda e fredda, perché crediamo che tutti gli uomini abbiano ugualmente il diritto ad un minimo di comodità, ma nello stesso tempo desideriamo, perché li amiamo, che siano difesi i prodotti dei quali veniamo parlando e gli uomini che li fanno. Ci sembra urgente, perciò, intervenire, non perché gli oggetti siano deviati verso una destinazione diversa da quella originaria, ma perché ritornino, anzi, alla loro purezza e ricchezza ed abbiano un mercato più vasto e diverso da quello che oggi hanno e che va per di più contraendosi. Si vuol dire che « modernizzare », adattare cioè ad un gusto aggiornato certe cose significa alterarle in quanto divengono altre cose se non rispondono ai caratteri che avevano. Prendiamo, ad esempio, un vaso di Ponte-corvo, uno di quei vasi da acqua fatti di terracotta e decorati a freddo con la terra rossa (l’origine dei quali l’archeologo Silvio Ferri fa risalire al IX secolo) e per renderlo meno rozzo o salottiero addirittura, smaltiamolo (questo tentativo s’è visto) ed avremo un ibrido, privo di senso, camuffato come la scimmia di un circo che può far sorridere, ma che può dare anche un senso di pena. Non significa, un tentativo di tal genere, salvare l’arte popolare; significa soltanto deformarla avviandola ancor più rapidamente alla fine. Accanto all’esempio che s’è fatto ve ne sono anche di positivi, tentati cioè con sensibilità e gusto; allora, però, si crea o meglio ci si serve di una certa tecnica e di certi mezzi per arrivare a conclusioni tutt’affatto diverse da quelle alle quali si potrebbe tendere. E non è più arte popolare. Si dirà che gli artigiani debbono pur vivere e che bisogna nel modo migliore aiutarli ; e va bene. Ma perché allora non diamo loro il mezzo e il modo di ritrovare quei caratteri ormai quasi perduti, quelle forme spesso dimenticate affinché quanto possono produrre abbia di nuovo un senso ed un contenuto senza, come avviene, cadere nell’approssimativo o, peggio, nel deforme? Perché non si cerca di dare agli artigiani la possibilità di arrivare con i loro prodotti anziché nei mercati vicini soltanto, anche oltre i limiti provinciali, regionali o addirittura nazionali? Perché non si organizzano in cooperative o consorzi di produzione là dove esistono gruppi di una certa consistenza (ceramisti, specialmente a Castelli, a Seminara, a 48