a nessun partito, grande o piccolo che sia. Non ho peraltro difficoltà a dichiarare il mio prevalente orientamento verso quella che potrebbe definirsi una «cultura liberal-democratica», nel senso più lato del termine. Suppongo del resto che la domanda su tale cultura mi sia stata rivolta proprio in considerazione di tale mio orientamento, da me non mai dissimulato, ed emergente da quando mi è accaduto tante volte di scrivere (e da ultimo nel libro I miei maggiori). Aggiungo, per debito di sincerità, che questo mio prevalente orientarmi verso la «cultura liberal- democratica» io non lo considero una scelta di campo politica, e neanche una professione di fede in determinati valori, con esclusione di altri e diversi valori. A questo proposito, vorrei fare mie le parole dette da Gianni Vattimo nella sua intervista sul n. 3 di «Sisifo»: «I valori che coltivo, non li coltivo perché corrispondono alla ragione, ma perché sono quelli dentro cui sono cresciuto». Questo debito verso il mio passato non mi ha mai impedito, e credo che neppure oggi mi impedisca di scorgere e apprezzare i valori esistenti in altri e diversi campi culturali e politici. Detto questo, affermo che, secondo me, la cultura politica liberal-democratica non richiede necessariamente, oggi in Italia, per la sua sopravvivenza e per la garanzia della sua vitalità, che esista un'area partitica, 4 che ad essa si richiami. Una cultura qualsiasi, pur che sia veramente tale — e non un'artificiosa superfetazione ideologica — non ha bisogno, per vivere ed espandersi, di disporre dello strumento-partito. Dal principio di questo secolo, e anche da prima, abbiamo l'esempio di piccoli movimenti, di giornali e riviste, di gruppi di opinione, che hanno esercitato una provvidenziale funzione di stimolo etico- politico e culturale. Basti citare la «Voce» di Salvemini, la «Rivoluzione liberale» o il «Baretti» di Gobetti, il «Mondo» di Pannunzio; e potrei continuare a lungo. L'importante è che questa cultura non si isterilisca, non ripieghi su sé stessa. Del resto, il fatto che oggi in Italia esistano diversi partiti che a tale cultura si richiamino, e spesso in concorrenza e talvolta anche in dissidio tra loro, ci dimostra che quella cultura non si può identificare con un partito specifico, ma sia piuttosto, rispetto ai singoli partiti, un prepartito (per adottare un termine crociano) o un parapartito. Ciò naturalmente non toglie che esistano oggi in Italia dei partiti, non importa dire quali, e certamente partiti «minori», che a quella cultura si richiamino, più direttamente e insistentemente di altri. Ed è altresì innegabile che l'esistenza di uno o più partiti di questo genere, se particolarmente attivi e dinamici, possa anche fungere a sua volta da cassa di risonanza di quella cultura. Ma, ripeto, l'esistenza di una specifica «area partitica» non è condizione necessaria per la sua vitalità. Ciò posto, e venendo all'ultima parte del quesito, io reputo che ogni buon democratico dovrebbe tuttavia opporsi a qualsiasi riforma del sistema dei partiti che «privilegiasse i grandi partiti di massa». E questo non già per il timore o il pericolo di una cancellazione o estinzione di quella cultura liberal- democratica, o di una parte di essa — timore o pericolo, come sopra ho detto, ingiustificati —, ma per due altri motivi: primo, perché ogni «privilegio» sarebbe incompatibile con una democrazia genuina e non camuffata; secondo, perché nel nostro paese, così socialmente, politicamente, culturalmente articolato, irriducibilmente individualista, ancorato a diverse tradizioni storiche e geografiche di incoercibile vitalità, cancellare i partiti minori sarebbe non solo ingiusto, ma dannoso, in quanto impoverirebbe e appiattirebbe la nostra vita pubblica, toglierebbe ancora respiro a una democrazia che il peso conformista e controriformista dei secoli andati già rende così spesso asfittica. Sbarramenti come quelli esistenti nella Repubblica Federale sarebbero, da noi, in pura perdita: in una parola, antidemocratici.