La finalità di queste pagine è di presentare un programma di attività abbastanza articolato e complesso. La complessità nasce dalla molteplicità degli strumenti utilizzati che comprendono 3 mostre fotografiche, 50 film, materiali televisivi, 7 dibattiti. Le mostre fotografiche e, in particolare, la rassegna del cinema americano, hanno una loro compiutezza intrinseca, così come ciascun dibattito avrà una sua propria e autonoma logica. Ma a noi serve, con queste pagine, dare il senso complessivo del programma perché ciascuno di questi strumenti sia fruito nel modo da noi progettato, in maniera conforme cioè alle nostre motivazioni e alle nostre intenzioni. Da qui la necessità di queste pagine. Esse non contengono proposte operative e non consigliano certamente scenari di arrivo per Torino; vogliono solo offrire il senso complessivo del programma che a sua volta si limita a offrire una chiave di lettura per alcuni fra i problemi più generali della città. Norberto Bobbio ha scritto alcune pagine conclusive ad un suo saggio sulla storia della cultura torinese prendendo atto di un’occasione perduta e di una irrimediabile perdita. L’occasione perduta sarebbe stato il mancato rinnovamento culturale che poteva seguire alle immigrazioni degli anni ’50 e ’60, l’irrime-diabile perdita sarebbe costituita dalla fine del piemontesismo, intendendo per «piemontesi-smo» l’idea «che vi sia un carattere particolare del piemontese di cui occorre trovare l’origine storica, le peculiarità, le affinità e le differenze rispetto alle altre figure regionali». Torino «se avesse avuto un’amministrazione più illuminata avrebbe potuto diventare in seguito all’afflusso di centinaia di migliaia di emigranti — specie meridionali — il grande crogiolo in cui il Nord e il Sud d’Italia, divisi da vecchi rancori politici, da incomprensioni psicologiche, da pregiudizi colti e popolari, e da reali differenze di storia, di costumi, di mentalità, sarebbero stati destinati a fondersi». Con questa semplicità e anche con questo candore, uno dei più autorevoli rappresentanti della cultura torinese, riassumeva e dava forma scritta ad una opinione molto diffusa; nello scritto di Bobbio sembra di poter leggere anche un senso di rimpianto per quello che poteva essere e non è stato, ma certamente non vi si leggono giudizi di condanna verso gli immigrati o verso i piemontesi. L’emigrazione poteva essere una spinta innovativa e non lo è stata; la piemontesità esisteva e ora non è più. Noi abbiamo chiesto a Norberto Bobbio di partecipare, insieme a Luigi Firpo, da Bobbio indicato come il più competente ed autorevole rappresentante del piemontesismo, a questa iniziativa: da un lato perché è essenziale che la cultura torinese partecipi a questo dibattito e collabori all’approfondimento dei temi che ci siamo proposti, dall’altra perché vogliamo dare una occasione a Norberto Bobbio e a quanti condividono la sua opinione, di riflettere su questo loro giudizio. Nella loro colta gentilezza e nel loro sereno disincanto le ultime pagine del saggio infatti suonano troppo come un epitaffio per poter essere accettate come definitive. Esse arrivano come conclusione di un saggio che ripercorre le tappe più significative della cultura torinese. Gobetti e la “Rivoluzione Liberale”, il “Baretti”, Luigi Einaudi, Pavese e gli altri intellettuali piemontesi sono i protagonisti: intellettuali e idee, che hanno vivificato Torino e hanno contribuito in maniera determinante alla vita culturale nazionale. Una galleria di uomini che, pur nelle differenti posizioni, conservavano la comune caratteristica di una cultura dotta e professionalizzata che si esprimeva in una produzione di idee, articoli, saggi, conferenze. Ma la cultura è anche altro da questo e anche in un altro senso si può parlare di «cultura torinese»; la coscienza che la città esprime di sé non solo attraverso alcuni intellettuali ma attraverso le rappresentazioni che i suoi cittadini danno di sé, del loro passato e del loro futuro. Se è esistita una torinesità o un pie-