Una radice certa dell’architettura “ordinaria” torinese è riscontrabile nelle
architetture di Elio Luzi e Sergio Jaretti, ove la capacità di utilizzare materiali correnti
all'interno delle regole del Piano Regolatore ha fatto delle loro architetture una vera e
propria scuola per i protagonisti dell'edilizia della speculazione. Architetture, quelle di
Luzi & Jaretti, che rivelano una grande capacità di muoversi entro le rigide griglie delle
regole normative e delle necessità economiche dell'impresa, con interpretazioni
sempre sorprendenti, ma a partire dalla composizione e scomposizione di elementi
"ordinari". Un vero e proprio “vocabolario dei modi d’uso del mattone da quello
nobile, pieno e sabbiato a quello meno nobile forato che non permette decori in
rilievo, fino all’uso di taglio con lo stampato a vista” (Sudano, 1994, p. 542) compare
nell’edilizia residenziale. Ci sono delle ragioni ulteriori nell’uso persistente del mattone
che devono essere certamente ricondotte alla presenza regionale di una forte
tradizione manifatturiera. Una antica tradizione produttiva locale che ha generato una
consolidata cultura dell’uso del mattone pieno in facciata, associata ad una capacità
tecnica dei paramanisti unica nel suo genere, e che i protagonisti del “neo-liberty”,
prima di altri, hanno inteso recuperare. Contenitore quello del neo-liberty entro cui si
sono per altro allineati, per ragioni di comodità, protagonisti piuttosto differenti per
cultura e pratiche progettuali. Pur non essendo questa la sede per approfondirne i
differenti caratteri dei protagonisti di questo articolato periodo storico basti ricordare
che in quegli anni Elio Luzi conobbe ed apprezzò l’architettura barcellonese di Antoni
Gaudì e di Josep Antoni Coderch, cosi come Pietro Derossi ebbe modo di conoscere e
studiare da vicino l’architettura secessionista viennese. Due particolari della loro
formazione che porteranno allo sviluppo di linee di ricerca differenti.
Altro riferimento culturale che sembra ritornare in queste architetture ordinarie
torinesi è offerto dall’influenza esercitata da una certa architettura organica
scandinava che negli anni ’50 trovava molto spazio sulla diffusa rivista Metron diretta
da Bruno Zevi, e che sicuramente influenzò gli architetti coinvolti nel progetto della
Falchera guidato dal piano coordinato da Giovanni Astengo insieme a Sandro MolliBofa, Mario Passanti, Nello Renacco, Aldo Rizzotti. Progetto quello della Falchera dove,
ad esempio, le residenze di Nello Renacco e di Gino Becker riprendono e rinnovano un
campionario raffinato di tessiture murarie in paramano, utilizzando un vocabolario che
non aveva mai abbandonato le architetture residenziali pubbliche.
Vi sono però alcuni tratti delle recenti architetture correnti torinesi non
direttamente riconducibili a questi fenomeni e che sembrano illustrare una peculiare
disinvoltura progettuale che potremmo definire di tipo “anti-compositivo”. Si tratta di
un atteggiamento progettuale che risulta poco attento alla retorica monumentale,
all’unitarietà delle composizione, con un’accentuata propensione al “tradimento” della
composizione primaria. Un atteggiamento che sembra più attento agli incidenti di
percorso che alla coerenza unitaria, più aperto al processo che alle necessità di
rappresentazione pubblica e collettiva dell’architettura urbana. Una tendenza che
talvolta sembra essere intenzionale, altre volte solo guidata dalle vicissitudini
“ordinarie” che accompagnano il progetto, frutto di ragionamenti spaziali volti a
ottimizzare la distribuzione interna degli alloggi o a caratterizzare in modo specifico
ciascuno spazio a prescindere dalla composizione unitaria della facciata pubblica.
Propensione alla articolazione delle differenze che, nei casi migliori, non sembra
scaturire dall’intenzione di giungere al “pittoresco” o ad una “architettura spontanea”
ma sembra piuttosto derivare da una reale attenzione ai differenti modi di abitare.

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