zionale ma con un potente legame «intemo»: staccarsi dalla prima rivoluzione socialista del mondo vorrebbe dire, per il Pei e il Pcf, ricominciare tutto daccapo e, probabilmente, affrontare una scissione di «fedeli» dell'Urss. Quest'ultima conseguenza a dire il vero, è più implicita che esplicita nel discorso di Aron. L'ambiguità è reale ma dubito che possa trovare una base politica solida se non nella potenziale minaccia (forse più per il Pcf che per il Pei) di una fronda filosovietica: infatti è pensabile che l'internazionalismo sovietico non abbia lasciato alcuna base in questa parte di Europa? È questa semmai più che un misto di ideologia e di emotività una ragione eminentemente politica dell'ambiguità Pci-Pcf. Tanto basta, dice Aron, per non potersi « fidare »: questo è giudizio politico che non rientra necessariamente né nell'analisi né tantomeno c'impegna ad una presa di posizione. Anche la seconda difficoltà, che viene giocata sul rapporto apparenza-realtà anch'essa, lascia più perplessi: i partiti eurocomunisti dicono di accettare il pluralismo, ma nello stesso tempo cercano alleanze a tutti i costi, cioè il raggiungimento di una base talmente estesa che sfiora la totalità dell'elettorato e quindi non rispetta a fondo la dinamica tra maggioranza (diventata ultramaggioranza) e minoranza (polverizzata ad un'entità minima o inesistente). Ma « Ciò che definisce il pluralismo... non è essenzialmente la concorrenza tra i partiti, ma il rifiuto dell'unanimità fittizia, del conformismo intellettuale imposto da un'ideologia, incarnata da un partito o da un uomo, principio ad un tempo di fanatismo e di scetticismo. Ora, su questo punto, nulla prova che gli eurocomunisti abbiano compiuto oppure iniziato la loro conversione » (Ibidem, pp. 361-62). Eppure anche qui emerge una possibilità di risposta tecnica e l'abbiamo appena vista: è vero che la democrazia liberale si fonda sulla dialettica maggioranza-minoranza ma è anche vero che di fatto, essa è retta da governi di coalizione che spesso raggiungono maggioranze assai vaste e che questo salva questi governi da quella « impasse parlamentare » che distingueva i governi liberali del primo dopoguerra, incapaci di formare alleanze con chicchessia. Anche questa può essere un'obiezione alla osservazione di Aron. Un'altra difficoltà: accettare la democrazia del partito (rifiuto finale del «centralismo democratico») significa accettare la possibilità che la classe operaia « scivoli sulla stessa buccia dei sin- 74