società decentrata in imprese finanziarie e non finanziarie, munite di autonomia, riesce difficile in un momento nel quale le classi dirigenti politiche si comportano in maniera da indurre il convincimento che esse rifiutano l’accettazione delle regole alle quali il sistema deve sottostare. Invero esse combattono per la conquista di posizioni di direzione in istituti di credito, in casse di risparmio, in banche, in enti di gestione, in società con partecipazione statale. Nonostante che tutte le forze politiche ripetano la convinzione della necessità di rispettare il principio della professionalità, tutte indistintamente non sanno raggiungere accordi: perché tutte indistintamente stimano che gli amministratori di quegli enti debbano esercitare il potere per catturare consensi alle forze politiche verso le quali considerino di essere debitori della nomina.
    Confesso di aver errato in passato quando espressi la convinzione che un controllo più diretto del Parlamento sulle nomine negli enti del settore pubblico o prossimi al settore pubblico avrebbe consentito di ispirarle al rispetto del principio di professionalità. Aggiungo che una partecipazione più diretta del Partito Comunista alle designazioni, non foss’altro perché meno compromesso nell’esercizio del potere centrale, mi induceva a credere che le cose sarebbero mutate in meglio; invece, sono mutate in peggio e in molto peggio. L’opinione pubblica che segue il problema delle nomine negli enti non può non prendere atto, profondamente rattristata, dell’incapacità di aggregare i consensi e della mancanza di prese di posizione che, per la loro risolutezza, potrebbero, anche se condannate all’insuccesso, concorrere alle soluzioni. Né, forse, la proposta del Governatore della Banca d’Italia di assegnare all’Istituto di emissione in linea temporale un potere di nomina sarebbe idonea. Ché, se le forze politiche avessero la capacità di delegare quel potere, avrebbero anche quella di esercitarlo.
    Le riflessioni esposte non sono affatto espressione di una visione qualunquistica, ma piuttosto di una visione che rifiuta « la riduzione del partito politico a coacervo di mediazioni corporative, ad amministratore e sensale di spezzoni sociali e di equilibri tra confraternite » (P. Ingrao, op. cit.). Credo anzi nella precedenza che deve essere accordata alla rappresentanza politica nello Stato, credo che questa spetti ai partiti e dubito dell’opportunità di estendere la prassi di decisioni assunte fra Governo e sindacati, fra partiti e sindacati, perché il suo estendersi potrebbe cancellare « il momento della rappresentanza politica generale e togliere ad essa autonomia ». Non credo, però, che ai partiti debba essere riconosciuto il monopolio della
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