tesi degli ordinovisti, assunse decisamente sin dalla fine di maggio la direzione del movimento per una profonda riforma dei concordati di lavoro, tanto sotto l'aspetto salariale quanto sotto quello normativo (68).
    Poiché nel corso delle successive fasi delle vicende del 1920 è stata da più parti sottolineata una certa frattura nell'Interno delle forze imprenditoriali italiane, e precisamente l’insorgere di interessi contrastanti tra l'industria più legata alla produzione bellica, in particolare quella siderurgica ed una frazione di quella meccanica già colpite da una crisi assai acuta, ed altri gruppi più efficienti e cioè « più capaci e disposti ad affrontare e risolvere i problemi del passaggio dall’economia di guerra a quella di pace» (69), sembra necessario tentare una chiara individuazione della struttura capitalistica del padronato torinese, almeno per la parte più rappresentata ed attiva nelle associazioni sindacali. Con questo tentativo, e soprattutto con l’analisi delle valutazioni e delle decisioni via via assunte in quelle sedi dal giugno all’ottobre 1920, si possono anche fornire elementi per un giudizio definitivo in merito alla dibattuta questione sul « centro » del movimento, se Torino o Milano, nonché sul problema metodologico se si possa o no scrivere di storia economico-sociale senza cadere nella « storia diplomatica delle classi subalterne » (70).
    Il passaggio dall'economia di guerra a quella di pace non avvenne senza scosse neppure a Torino, in specie per ii grande numero di aziende sovrasviluppatesi a causa della domanda bellica. La mano d'opera industriale, giunta al massimo nel 1918 con 158.000 lavoratori, proveniva nella massima parte dalle campagne piemontesi (ancora nell’ultimo anno di guerra si registrarono 12.500 «immigrati»); dagli inizi del 1919, tuttavia, l'occupazione decresce, come del resto la popolazione residente, e già alla fine del 1921 i disoccupati superano le 21.000 unità. La Città riprende il suo ritmo normale di espansione demografica soltanto dal 1925.
    Torino, come è noto, era rimasta esclusa dal riassetto bancario italiano del 1893-95. Nella regione piemontese nessuna banca di interesse nazionale, fra le aziende di credito genuinamente locali, assolse alla funzione di fonte finanziaria immediatamente accessibile all’industria, li carattere prevalentemente periferico del sistema creditizio regionale, dotato di scarsa autonomia, provocò degli squilibri, cui altri si aggiunsero, derivanti, sempre sotto l’aspetto finanziario, dall’alta concentrazione industriale. Così, dal 1919, un sempre maggior numero di piccole e medie imprese, prive di un adeguato sostegno creditizio, si avviarono a condizioni fallimentari; l’indice dei fallimenti quintuplica tra il 1918 ed il 1923. Le aziende di piccola dimensione non spariscono in assoluto come unità produttive, sono fagocitate da alcuni potenti gruppi finanziari ed industriali, i quali dispongono di riserve accumulate negli anni di guerra e che, in caso di bisogno, possono far ricorso al capitale estero.
    Lo Stato, col concorso di cinque grandi banche, tra cui l’Istituto San Paolo di Torino, riconosciuto però di diritto pubblico soltanto nel 1932, aveva creato il Consorzio sovvenzioni sui valori industriali per attutire la fase di riconversione; ma era un mezzo concepito e valido in regime di stabilità monetaria, non d’inflazione galoppante. Un altro grave colpo
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