sembrava corruzione ed intorpidimento delle forze vive e produttive di una nazione già in ritardo nello sviluppo economico, nell'istruzione, nella coscienza dei suoi problemi e nella comprensione dei sacrifici che il raggiungimento di ogni livello superiore comporta.
    In sostanza, Olivetti comprendeva, anche se non lo espresse chiaramente, che non è possibile comprimere troppo il tempo di ogni vera rivoluzione industriale. Anche in Italia era necessario un periodo ■■ neanderthaliano », pure se l’affermarlo poteva sembrare atto freddamente razionale e quasi cinico: altrimenti le leggi dell’economia si sarebbero vendicate in qualche altro modo. Invece, introdurre il denominatore comune della politica nella sfera economica significava restringere il « lebensraum » dell’industria e diminuire di molto le possibilità che essa aveva di costituire la punta di diamante dello sviluppo economico italiano, in quanto era costretta a soggiacere a quel potere che in ultima analisi era conferito dalle moltitudini, o che, perlomeno, le masse credevano di liberamente delegare per mezzo del sistema elettorale e della sua espressione parlamentare. Perciò quel potere non poteva, e certo non aveva ancora saputo, liberarsi dalla sua congenita demagogia e dal mito dell'eguaglianza universale su cui fingeva di credere di poggiare, e chissà per quanto tempo in avvenire non sarebbe stato capace di farlo. E perciò non sarebbe mai stato in grado di comprendere lo sforzo solitario, grigio ed antieroico dell'imprenditore e di sostenere l'industria nel tentativo che essa stava compiendo di trascinare il Paese fuori dell’area del sottosviluppo, dell'economia puramente agricola, della disoccupazione e dell’antica povertà.
    Era assurdo pretendere che gli imprenditori facessero tutto questo per mere idealità filantropiche. Olivetti, che li conosceva molto bene, non credeva che essi fossero persone superiori, distaccate dal mondo e dalle sue vanità, e non pensava nemmeno che ad essi spettasse un ruolo direzionale nella guida della Nazione: li giudicava in quanto industriali, se capaci o no di creare imprese produttive che dessero utili e lavoro. Ma se riuscivano, se creavano davvero qualche cosa di proficuo per sè e la comunità, pensava che avessero almeno il diritto di lavorare in pace, senza falsi impacci umanitari ed al riparo dalle complicate interferenze della politica e dei politici di mestiere.
    Questi pensieri furono seminati in lui dagli avvenimenti del 1913, e senza dubbio trovarono ricco alimento nel contegno del Giolitti, quando, nel settembre del 1920, egli si recò ripetutamente dal presidente del Consiglio per esporgli la situazione delle fabbriche occupate e le intenzioni degli occupanti. Forse riaffiorano di nuovo nella sua mente nelle drammatiche giornate di fine ottobre 1922, quando a Milano, con Benni e Pirelli, aderì a malincuore ed all'ultimo momento al progetto di un governo Mussolini. Le vie delle responsabilità, come quelle del Signore, sono infinite.
    5.      La politica e l'azione sindacale della Lega industriale derivavano, oltrecchè dalle posizioni di principio, di difesa degli associati e di
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