renti alla Confederazione dell'Industria. Si trattava di una crisi complessa, nel corso della quale affiorarono antichi risentimenti di carattere personale da parte di Mazzini ed in cui soprattutto si dimostrò la sua incapacità a valutare la situazione con un'ottica veramente nazionale, secondo le condizioni del momento. Bisogna dire che nella sua sensazione di ritenersi non sufficientemente capito e considerato, Mazzini aveva con sè buona parte degli industriali rimasti nella Lega; una Lega, ahimè, ormai priva dei gruppi aziendali più importanti (Fiat, Snia, Sip, Unione Italiana Gas] i cui dirigenti erano gli uomini più significativi dell’industria italiana degli anni '20 e veramente i pionieri di una nuova frontiera nello sviluppo economico del Paese. Invece, i rimasti erano gli esponenti tipicamente piemontesi di una mentalità in certo senso limitata, capace talvolta di grandi anticipazioni, come in fondo era stata l'idea sorta e cresciuta a Torino dell’unione nazionale delle forze imprenditoriali, ma inadatta poi alla soluzione dei problemi nuovi che nascevano via via e soprattutto isterilita da una rigida quanto vacua componente moralistica.
    Il disegno che Olivetti, costretto dalla forza delle cose, andava pazientemente tessendo era sottile e delicato. Egli aveva ormai compreso che, in gran parte a causa della tragica incapacità deH'opposizione costituzionale e del compiacente atteggiamento di una parte rilevante del mondo politico e non solo politico italiano, non esistevano ormai più ostacoli seri alla marcia del fascismo verso lo Stato totalitario. Con questa forza bisognava ad ogni costo venire a patti per salvare il salvabile dell’organizzazione sindacale ed economica dell'industria, e consentirle una sfera sia pure limitata di autonomia. Una battaglia come questa non era neppure pensabile con delle remore di tipo moralistco che frenassero l’agilità e la spregiudicatezza dell'azione. Certo Olivetti cominciava a rendersi conto di aver commesso il più grave errore della sua vita, quando, come molti altri e non degli ultimi venuti, aveva creduto di poter usare del fascismo senza esserne contaminato; ma fu un errore che, come non molti di quegli altri, pagò di persona. Ad ogni modo, quando si avvide che Mazzini ed il suo seguito di municipalisti si disponevano a ripetere il dramma di Torino già capitale ingenerosamente abbandonata da coloro che pure aveva portato vittoriosa sui colli fatali di Roma, Olivetti, dopo aver usato molta pazienza e buona volontà per farsi capire, li lasciò andare per la loro via.
    Così, il 15 aprile 1926, a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione della legge che regolamentava corporativisticamente i rapporti di lavoro, Mazzini e Tedeschi, rispettivamente presidente e vice presidente della Lega Industriale di Torino, si dimisero nel corso dell’assemblea generale (42). Il gesto intendeva essere di protesta verso l’incomprensione della Confederazione dell’industria, e, per chi volesse ad ogni costo leggere tra le righe, anche per la sua politica di collaborazione col fascismo. In effetti, nel rapporto della commissione istituzionale nominata subito dopo per studiare le cause ed indicare i rimedi della « situazione di disagio », la legge corporativa fascista era indicata, attraverso un involuto giro di frase, come un cambiamento radicale nella vita sindacale ed economica dell industria
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