MARZO 1994 - N. 3, PAG. 5 Balcani tra profezia e cronaca di Ivan Djuric Christopher Cviic, Rifare i Balcani, Il Mulino, Bologna 1993, ed. orig. 1991, trad. dall'inglese di Luca Cecchini, pp. 179, Lit 16.000. Joze plrjevec, Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992 storia di una tragedia, Nuova Eri, Torino 1993, pp. 608, Lit 58.000. Non mancano elementi comuni a questi due libri: innanzitutto la pubblicazione contemporanea in Italia; poi il fatto che gli autori — in quanto entrambi originari dell'ex Jugoslavia (Cviic è di origine croata e Pirjevec appartiene alla minoranza slovena in Italia) — sono direttamente coinvolti nell'oggetto della loro ricerca; quindi la distanza geografica che separa i due autori dall'oggetto stesso della ricerca (Cviic è collaboratore del Royal Institute of International Affairs di Londra e Pirjevec è professore alla facoltà di scienze politiche di Padova) e che permette loro valutazioni a mente fredda; infine, soprattutto, il fatto che nessuno dei due autori appartenga a quella categoria dei "passionali" che abbondano oggi nello spazio jugoslavo (e ovunque si accendano discussioni attorno ad esso). Nondimeno, non si tratta di opere somiglianti, né per gli argomenti, né per il metodo adottato. Possiamo soltanto definirle complementari. Cviic non sceglie l'atteggiamento dello storico, ma piuttosto quello del politologo e persino del futurologo politico. Per contro Pirjevec non solo rimane nell'ambito assegnato allo storico, ma si fa cronista, narratore di eventi, storico anche in senso positivistico. L'ambito geografico dell'indagine di Cviic è solo parzialmente identificabile con la penisola balcanica: il suo libro si occupa infatti della Romania, della Bulgaria, dell'Albania e della ex Jugoslavia, ma non (o almeno non nello stesso modo) della Grecia. A motivare il suo interesse per questi paesi è un unico motivo: la vittoria del comunismo dopo il 1945. Di qui il fatto che il "tempo storico" di Cviic si limita al periodo che va dalla seconda guerra mondiale fino alla caduta dei regimi totalitari nei Balcani nel 1991. Pirjevec invece, per delimitare la cornice della sua indagine nella vita formale dello stato jugoslavo, individua un riferimento nei confini stabiliti nel 1919 e scomparsi nel 1991. Uno storico propenso a credere nella "lunga durata" e nella cosiddetta "storia globale" procederebbe probabilmente in maniera diversa: ad esempio non troverebbe sufficiente il comunismo come criterio esplicativo per una ricerca il cui titolo promette una discussione sui Balcani (verosimilmente si occuperebbe dei Balcani nel loro complesso o si limiterebbe a proporre un'analisi del fenomeno del comunismo nei Balcani); allo stesso modo se decidesse di limitare la sfera di indagine alla Jugoslavia, prima di metter mano agli annali dello stato jugoslavo, dovrebbe affrontare una seria riflessione sull'evoluzione dell'idea jugoslava nel XIX secolo, e in particolare sui processi che hanno condotto alla concretizzazione di questa idea nei regni serbo, croato e sloveno dopo la prima guerra mondiale. Tuttavia le scelte metodologiche sono ovviamente e per diritto appannaggio dell'autore, non spettano al recensore. Cviic non nasconde mai, neanche per un istante, che suo scopo è la sintesi, una conclusione cioè che confermi ipotesi esposte in anticipo e con una certa audacia. Tali ipotesi sono riconducibili in primo luogo all'idea che il comunismo al potere, a imitazione del modello sovietico, inevitabilmente sfocia nel nazionalismo come più sicuro mezzo di conservazione dell'autocrazia minacciata dalle alternative democratiche e, in secondo luo- go, alla convinzione che il futuro dell'Europa centrale e sudorientale riposi più sulla costituzione di vaste associazioni statali ed economiche che non sugli anacronistici "feudi" in miniatura che tengono oggi la scena nell'ex Jugoslavia. Pur corrette nei fondamenti, entrambe le presupposizioni del discorso di Cviic richiedono alcune precisazioni e una certa relativizzazione, naturalmente se si vuole evitare il rischio di semplificazioni. Perché — parliamo della Jugoslavia di Tito — i comunisti hanno consolidato il loro potere sulla base del concetto del "sovranazionali-smo" jugoslavo (che fu alla radice, per esempio, della generale lealtà a Tito nella battaglia politica contro Stalin nel 1948) e anche su un certo particolare "ecumenismo". È pur vero, tuttavia, che nel momento in cui furono minacciati, i comunisti in Jugoslavia, come sempre hanno fatto tutte le chiese, non esitarono a trasformare quel precedente ecumenismo in puro nazionalismo nel tentativo di trattenere il potere. Secondo Cviic nei Balcani per anni nulla è cambiato, tanto che solo con la caduta del muro di Berlino la penisola ha dovuto fronteggiare grandi sommovimenti. Questo, si sa, non è nulla di nuovo per i Balcani, ma nuovo è, per Cviic, il fatto che per la prima volta i popoli balcanici sono portati a decidere da soli di sé, senza l'influsso di poteri estranei, e che i sommovimenti sono questa volta cagionati non da interventi esterni, ma sorgono dall'interno dell'area. A differenza delle precedenti, è vera l'affermazione che i Balcani sono oggi esposti al rischio di un'emarginazione politica come non hanno mai conosciuto nella storia moderna, e così pure corretta è la questione che Cviic pone, se gli ex comunisti, dato che sono ancora loro in maggioranza a detenere il potere nei Balcani, siano in grado di costruire le nuove società sulle rovine del comunismo. Servendosi di analogie con aree extrabalcaniche, Cviic sostiene che ciò non è possibile (anche se poi confessa che ci sono casi come la Slovenia e la Macedonia che provano il contrario). Di fronte alla dissoluzione della Jugoslavia e alle guerre successive al 1991, Cviic ha modificato nel 1993 i capitoli V e VI del suo libro (ciò che fa dell'edizione italiana qualcosa di più di una semplice traduzione), ma senza rinunciare alla sua tesi di fondo secondo cui la soluzione del rompicapo balcanico è nella costituzione di due ampie associazioni interstatali: una che chiama "Kleinmitteleuropa" e che sarebbe composta da Austria, Bosnia-Erzegovina, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria, Croazia e Slovenia (con un particolare coinvolgimento dell'Italia e la collaborazione di Polonia e Ucraina), l'altra che Cviic chiama convenzionalmente "Balca-nia", composta da Romania, Bulgaria, Grecia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Albania (con un particolare coinvolgimento della Turchia). I difetti di questa ripartizione sono conseguenza diretta dello schema che Cviic ha scelto fin dall'inizio. Solo una sottovalutazione dei reali parametri storici, culturali e geografici, a vantaggio della politologia (o dell'"ideologia"), infatti, può portare a voler spingere una regione come la Bosnia-Erzegovina, per definizione "la più balcanica", fuori dalla penisola, verso Praga o Vienna; allo stesso modo solo una sottovalutazione di ogni criterio "antropogeografico" può portare a negare ai frammenti dispersi dei popoli slavi del sud il loro caratteristico status, tanto balcanico quanto centroeuropeo (non sono, ad esempio, i serbi autoctoni della Vojvodina da considerarsi più "centroeuropei" dei croati di Dalmazia, per non parlare dei serbi, croati e musulmani di Bosnia-Erzegovina e delle peculiarità dei popoli "dinarici"). In questo senso, come indicatore di un diverso modello di pensiero, sarebbe stato utile a Cviic servirsi dell'opera — pur datata e segnata da forte parzialità — di un suo omonimo (Jovan Cviic, Le pénin- sule balkanique. Géographie humaine, Armand, Paris 1918). Verosimilmente, con un diverso approccio si sarebbero avute meno storie balcaniche parallele, spesso disomogenee e distinte, dell'ex Jugoslavia, della Bulgaria o della Grecia; ma in ogni caso sarebbe rimasto intatto il messaggio di fondo del lavoro di Cviic: l'insensatezza degli avvenimenti attuali, l'assoluta necessità di por fine agli scontri, la scala graduale delle responsabilità rispetto ad essi (in primo luogo Belgrado, poi Zagabria, poi gli altri, nell'ordine), nulla di tutto questo può essere superato se non rinnovando associazioni fra i popoli (sia pure diverse da quelle finora sperimentate). L'odio, anche se comprensibile, non può essere un ostacolo. E non è molto importante se tali associazioni non saranno poi quelle che Cviic propone. Seguendo con rigore il metodo scelto, Pirjevec si comporta in maniera opposta a Cviic se anche presuppone le conclusioni che intende trarre, le nasconde con cura al lettore, in modo che questi non vi abbia accesso alcuno nel corso della lettura. Perciò la sua cronaca jugoslava, fra l'altro molto equilibrata, acquista in neutralità. Ma nel timore, cui si è già accennato, non solo della profezia (timore proprio dello storico), ma anche della sintesi conclusiva, si nasconde anche un difetto del libro di Pirjevec. Come sia, Pirjevec segue da narratore tradizionale, con successo e con molti argomenti, il destino del regno e, ancor più in dettaglio, della repubblica di Jugoslavia. Non gli sfugge l'egemonia di Belgrado dopo il 1919, né i tragici scontri fra unitaristi e federalisti prima del 1941, e gli sono ben chiare le conseguenze della serie di questioni nazionali irrisolte all'interno del regno, ma la sua attenzione è particolarmente rivolta ai mutamenti nelle posizioni dei comunisti verso l'idea jugoslava. Pirjevec è ancora più efficace quando, evitando manicheismi e semplificazioni, appunta il suo sguardo sul quadro complesso della Jugoslavia nella seconda guerra mondiale o quando bene distingue le caratteristiche che determinarono il diverso colore delle occupazioni e delle insurrezioni nelle varie regioni della Jugoslavia. La maggiore efficacia la raggiunge però nella cronaca della Jugoslavia di Tito: a titolo di esempio andrà citata almeno la straordinaria disamina delle analogie e delle differenze fra i riformatori comunisti in Croazia (maspok) e gli "anarcolibera-li" in Serbia e Slovenia (detto per inciso, da questa analisi si trae, a ragione, la conclusione che il tentativo di riforme liberali all'inizio degli anni settanta fu l'ultima occasione per trasformare la Jugoslavia in una democrazia di tipo europeo. Disgraziatamente gli "anarcoliberali" dovettero soccombere alla nomenklatura e ai veterani privilegiati, quegli stessi che da quel momento in poi incominceranno ad abbracciare sempre più fortemente la "Nazione" o la "Fede" o entrambi — opzione, quest'ultima, cara in particolare, ma non solo, ai serbi fuori dalla Serbia). Comunque, quand'anche il metodo descrittivo sia seguito rigorosamente, come nel caso di Pirjevec, rimane, e anzi cresce, il dubbio sulla possibilità da parte di un lettore non addetto ai lavori di comprendere a fondo i problemi dell'area jugoslava. Infatti, se le fonti storiche si riducono agli archivi e le nazionalità sono trattate come totalità costanti e omogenee, diventa impossibile spiegare, ad esempio, le circostanze per cui la Serbia volle l'insurrezione del 1941, o spiegare la stessa rivoluzione o, ancora, perché i serbi fuori di Serbia durante la rivoluzione siano divenuti facilmente titoisti, o perché i croati di Dalmazia fossero tutti favorevoli all'insurrezione (mentre quelli continentali non lo erano). Infine, con questo metodo non è possibile' neanche arrivare a chiarire fenomeni importanti come la solidarietà "di classe", non evidenziata nella storia, fra ungheresi e serbi autoctoni in Vojvodina, causata dalla comune resistenza verso i coloni serbi nell'anno 1945, solidarietà che avrà la sua espressione massima con l'avvento al potere di Slobodan Milosevic (che in Vojvodina gode dell'appoggio plebiscitario dei "coloni" e dei loro successori, ma non dei serbi autoctoni, né degli ungheresi). Per trovare risposte a domande come queste non solo sarebbe necessario rivolgersi alla "storia globale", ai criteri della "lunga durata" e a fenomeni etnogeografici e culturali (la cui estensione non corrisponde mai alle frontiere nazionali), ma sarebbe anche molto utile, per esempio, esaminare, ponendoli sullo stesso piano, elementi come le sedute del Politburo comunista e la fascinazione della "vetrina occidentale" sul Ponte Rosso di Trieste negli anni sessanta, o la comparsa della rivista "Praxis" (con i testi dei dissidenti marxisti jugoslavi) e la vendita delle scarpe "Varese" nei negozi di Belgrado all'inizio degli anni settanta, all'epoca degli "anarcoliberali". Anche così, tuttavia, il libro di Pirjevec risulta una lettura molto utile. Sarebbe addirittura eccitante, se contenesse anche un po' di quell'inclinazione per la profezia che coraggiosamente mette in mostra Cviic (trad. dal serbo-croato di Alma Mustajbegovic) <3 ma anche ripetuti movimenti verso l'integrazione. E vero invece che il nazionalismo — quel nazionalismo — è un sottoprodotto del comunismo stesso, è la scialuppa di salvataggio dei regimi alla bancarotta. Lo sfascio del comunismo in Est Europa offre l'occasione di dimostrare la teoria di Ernst Gell-ner secondo la quale il nazionalismo non è il prodotto di un'entità assoluta chiamata nazione. E vero il contrario: è la nazione, intesa come qualcosa scritto nel destino, che si rivela un prodotto dei nazionalismi. Nazionalismi a loro volta prodotti non dall'anima del popolo, ma da classi dirigenti e burocrazie fallimentari che ricorrono allo spauracchio del "nemico esterno" per conservare un consenso altrimenti impossibile. Ed ecco l'isolazionismo di Tirana e i suoi sogni mai sopiti di una grande Albania, ecco la romenizzazione del partito sotto Ceausescu, il suo "antisemitismo senza ebrei", ecco la sindrome d'assedio dei bulgari. Ecco, soprattutto, lo scontro fra le nazioni jugoslave. L'odio etnico, anche nei Balcani, torna dunque a configurarsi come sfogo di tensioni economiche e sociali. Il comunismo, con la sua industrializzazione pesante ha per esempio impoverito le campagne e avviato un'urbanizzazione forzata, senza parallelamente adeguare gli strumenti fiscali, monetari e normativi dello Stato. I regimi rossi volevano dunque una struttura urbana ma senza la borghesia: per questo hanno accompagnato una forte politica di immigrazione a una mitizzazione dei modelli rurali e patriarcali della campagna "sana" e vitale, portatrice dei valori nazionali contro l'aborrito cosmopolitismo del capitale. Ne è nata un'implosione sociale allarmante, un conflitto latente fra città e campagna — chiuse in una frustrazione reciproca — più forte che in altre parti d'Europa. Ed ecco che questo scontro sociale si delinea dietro alle tensioni fra ungheresi (più urbanizzati) e romeni (a cultura più rurale), fra musulmani Ccultura del commercio e del fondovalle) e serbi e croati di Bosnia (presenti in aree meno popolate), fra la Praga cosmopolita e la Slovacchia contadina. Ed ecco, ancora, la guerra nei centri della Slavonia "importata" dagli immigrati dinarici, o la diffidenza della Vandea transdanubiana ungherese per la grande Budapest "corrotta" e "poco magiara". E l'esempio più chiaro di come il nazionalismo venga offerto alle masse come falsa via d'uscita dai momenti di marasma e insicurezza economica, come avvenne in Germania e altrove dopo la grande crisi del Ventinove. "Alle soglie del Duemila — osserva Bianchini in chiusura — bisogna constatare non tanto che si è 'tornati a Sarajevo', quanto che bisogna 'uscire da Sarajevo', cioè uscire dalle strette del Novecento, dallo Stato-nazione e dalla spirale separatismo-egemonismo". Ma uscire da Sarajevo — aggiungiamo noi — significa forse "tornare a prima di Sarajevo". Quando i Balcani, terra dai confini impossibili, erano ancora in mano a imperi sovranazionali.