MARZO 1994 - N. 3, PAG. 14 Letteratura e sofferenza in Cina Lu Xun, Diario di un pazzo, prefaz. di Renata Pisu, Editori Riuniti, Roma 19932, trad. dal cinese di Primerose Gigliesi, pp. XIV-160, Lit 20.000. L'opera narrativa di Lu Xun è stata tradotta per intero da Primerose Gigliesi e pubblicata nel volume Fuga sulla luna (De Donato, Bari 1969 e Garzanti, Milano 1973), che comprende le tre raccolte Grido di guerra (1923), Errare incerto (1926), Vecchie storie rielahorate (1935). Al racconto Un incidente si è ispirato Lrancesco Leonetti in un libero rifacimento in versi. La presente edizione riproduce i racconti della prima raccolta, Grido di guerra. Nella prefazione l'autore racconta di come, sollecitato da un amico, si decise a scrivere il racconto Diario di un pazzo (1918) — dal quale si data convenzionalmente l'inizio della letteratura cinese contemporanea. Dei sedici volumi di saggi — la componente principale della produzione di Lu Xun — sono state pubblicate in italiano alcune antologie, insufficienti a dare un'idea sia pure approssimativa dell'altezza dello scrittore e della sua opera. Ma anche quel poco oggi è più o meno scomparso dalle nostre librerie. C'è dunque da rallegrarsi che sia alla seconda edizione questo unico volume superstite; e da sperare che, almeno per la narrativa, gli Editori Riuniti (o altri) vogliano completare la riedizione qui intrapresa. La biografia giovanile e la prima formazione del grande scrittore sono simili a quelle di tanti altri del tempo, nell'atmosfera di disfacimento fra gli ultimi anni dell'impero e i primi della repubblica, nell'eclettismo della cultura cinese e dei primi eterogenei apporti dell'Occidente. Non fu certamente un isolato, partecipò intensamente alla vita politico-culturale e alla comune ricerca di una via d'uscita dalla società del dispotismo e dalla colonizzazione. Eppure si distacca da ogni altro nella singolarità dell'opera matura e per la comprensione lucida e straziata del presente cinese, e non solo cinese, in anticipo sui tempi. Anche per questo forse fu attaccato a lungo da ogni parte, in vita e dopo la morte, molto odiato anche quando la sua figura si era imposta al pubblico in misura tale da rendere sconsigliabili gli attacchi aperti. Le componenti della sua cultura si dissolvono e riprendono corpo in un continuo paradosso ironico. Gli esteti conservatori hanno voluto vedere una rinuncia alla vocazione di scrittore nel suo abbandono della narrativa e nell'eccesso di atteggiamenti polemici e satirici. È vero il contrario: Lu Xun ha via via perfezionato la qualità della scrittura, e ha conservato una totale indipendenza di giudizio. Col maturare degli anni crescono la serenità e la libertà — nell'uso degli strumenti nuovi e della tradizione, cinesi e non cinesi — a rappresentare i conflitti e l'angoscia, la lontana fiducia e la morte. Nella fredda lucidità, nel suono metallico e spoglio dei saggi degli ultimi anni — siano di polemica politica, di satira o di lirica autobiografica — ogni residuo di verismo e di decadentismo scompare, la polemica contro le forme della tradizione è già alle spalle, e il presente pienamente posseduto. La sofferenza e l'orrore per la sofferenza causata agli uomini dagli uomini — specialmente la sofferenza subita dagli umili, dai giovani, dagli indifesi — sono una costante sottesa a tutta l'opera di Lu Xun. L'immagine del sangue versato è ricorrente, mai in termini simbolici o metaforici, nell'intollerabile materialità fisica, sangue che soffoca e impedisce di scrivere e di respirare. Dell'orrore ha esperienza quotidiana, e anche consapevolezza dell'inevitabilità e universalità. Il presente e il passato della Cina lo fanno ben consapevole di quello che sono il passato e il presente del mondo. Sarebbe per lui intollerabile venire a conoscenza degli episodi attuali di cannibalismo non metaforico, ma non lo stupirebbero, né lo stupirebbero cadaveri di bambini utilizzati negli incidenti d'auto simulati; o l'uccisione metodica di altri bambini, da parte della polizia in Brasile; o il commercio dei loro organi a favore di chi può comprarseli... Ma il cannibalismo di cui parla nel Diario di un pano è altra cosa. È il precetto: "Mangiate gli uomini", che si legge tra le righe per tutto il libro che ha scritto "in ogni pagina le due parole: VIRTÙ e MORALE". È il precetto del moralismo cinese; per estensione, il precetto di quanti nel mondo intero inducono i poveri alla barbarie e se ne tengono fuori e la condannano dall'alto del loro confucianesimo, o cristianesimo o umanitarismo laico di benpensanti ben nutriti. La "via dei re" -— il buon governo — è tutt'uno con la "via dei tiranni", e la civiltà cinese equivale a "quattromila anni di cannibalismo". Ma Lu Xan denuncia al tempo stesso il vuoto e la menzogna del moralismo dei moderni. Scrive nella prosa Un simile combattente (1925): "Egli... ha solo se stesso, e impugna la lancia dei selvaggi. Entra nell'esercito del nulla, e tutti quelli che incontra gli fanno lo stesso cenno del capo. Sa che questo cenno è un'arma del nemico, è un'arma per uccidere gli uomini senza che si veda sangue... In testa sono bandiere di ogni genere, con ricamati nomi di ogni sorta: filantropi, studiosi, letterati, anziani, giovani, esteti, aristocratici... Dietro, ogni sorta di soprabiti, con ricami di ogni specie: scienza, morale, cultura nazionale, opinione pubblica, logica, giustizia, civiltà orientale... Ma egli solleva la lancia. A di Edoarda Masi una voce, essi giurano e spiegano che hanno un cuore in petto, a differenza degli altri uomini pieni di pregiudizi. Tutti si pongono davanti al petto l'immagine del cuore, a prova della loro convinzione d'avere cuori nei loro petti. Ma egli... sorride, inclina la lancia, e colpisce diritto al loro cuore. Tutti insieme cadono a terra; ma sono solo soprabiti, dentro non c'è niente. Il nulla se n'è andato, ha riportato la vittoria, perché egli ora è divenuto il criminale uccisore di filantropi e simi- li. Ma egli solleva la lancia. Cammina a grandi passi attraverso l'esercito del nulla, e vede ancora gli stessi cenni del capo, ogni sorta di bandiere, soprabiti d'ogni genere... Alla fine in mezzo all'esercito del nulla si fa vecchio, muore. Non è più un combattente, e il vincitore è il nulla. In un luogo simile, non si ode rumore di battaglie: pace... Ma egli solleva la lancia!" Lu Xun deride i cinesi ignoranti e assoggettati, rivendicanti vuote glorie e peculiarità nazionali e superiorità morale. Con strazio senza perdono denuda sé e loro nel ridicolo e nella miseria estrema di personaggi come Ah Q e Kong Yiji. Attacca come nemici i mandarini delle classi dirigenti vecchie e nuove e in formazione, "rinviando il fair play" e guardando in faccia senza rimuoverla la condizione propria di abitante della periferia. Che è poi la stessa condizione del popolo. Appartiene e parla al mondo intero perché sa riconoscersi colonizzato. Contro umanisti, illuministi e filantropi — i modernizzatoti — è il rifiuto comunque del sacrificio imposto agli umili. I combattenti che Lu Xun attende, e che negli ultimi anni vedrà infine apparire nelle province lontane occupate dai soldati rossi, non hanno per fine il sacrificio a un ideale. Il sacrificio come valore è un inganno tremendo (il "nulla" dentro i soprabiti e dietro le immagini del cuore), per mezzo del quale i "mangiatori d'uomini" cancellano gli umili dalla storia. La voce dei morti, degli sconfitti, dei cancellati si leva contro la storia che accetta il fatto compiuto, vicenda dei vincitori: affinché altri vivi non venga- no sacrificati, senza fine. I "perfetti eroi" sono le bestioline verdi, pulitamente prive di spirito, di un'altra sua prosa: l'ironia sorridente non le risparmia, quando inutilmente e senza senso si gettano nel fuoco. Per un lettore europeo oggi, Lu Xun è singolarmente contemporaneo. Non tanto per le componenti occidentalizzanti del suo discorso, quanto più per l'uso che egli fa sia degli elementi propriamente cinesi della sua cultura, sia dell'esperienza rivoluzionaria del paese, anomala rispetto a quella europea. Combatte contro la letteratura quale luogo asettico di produzione edonistico-ornamentale e promuove l'impegno sociale e politico; nello stesso tempo, ironizza violentemente su tutte le forze mandarinali e neoman-darinali dell'impegno: si tratti della strumentalizzazione politica dello scrittore o della letteratura presunta rivoluzionaria delle avanguardie, del nazionalismo o del pateracchio nazionalpopolare, o del fronte patriottico degli scrittori sotto le direttive dei burocrati di partito. Due mozioni con- traddittorie, che hanno dominato le coscienze degli intellettuali nel nostro secolo, sono più esplicite nei paesi attraversati dalle rivoluzioni socialiste: la conservazione della specificità di casta e il dissolvimento della separatezza. In Cina, l'obbedienza alla prima si associa a un rapporto di complicità e, a un tempo, di conflittualità con le burocrazie politiche dirigenti — secondo i moduli di una lunga tradizione, dove il letterato detiene in parte il potere politico ma ne è pure il primo bersaglio. Le istanze di riforma e di rivoluzione così tornano velleitarie, dove le circostanze oggettive e la debolezza dei caratteri riportano all'atteggiamento di autodifesa, e quindi di miserevole autoesaltazione. Quasi tutti, scrittori e letterati, non hanno avuto forze adeguate ad assumere in proprio la sfida che per sessant'anni la Cina ha lanciato al mondo attraverso la sfida alla propria civiltà: si sono rifugiati nell'imitazione della letteratura europea dell'Ottocento (i narratori) o in esperimenti ispirati dalla poesia del Novecento (i poeti); si sono sentiti tagliare e si sono tagliati il terreno sotto i piedi, col progredire della rivoluzione, riducendosi al silenzio o a un balbettio primitivo e puerile, e fino all'imitazione del peggiore realismo socialista. Autodistruggendo le proprie capacità espressive perché incapaci di riconoscere e di far fronte alla dissoluzione del contesto sociale e culturale che li aveva generati. Lu Xun, al contrario, promuove la sfida, senza cercare riparo nell'uno o nell'altro luogo del passato cinese o straniero ma anzi spingendosi oltre i limiti della rivoluzione politica. Per questo agli eredi del privilegio — custodi del passato o acculturati dall'Occidente o avanguardisti "rivoluzionari", o membri delle varie no-menklature — egli appare come un empio iconoclasta o un eretico. Lu Xun traccia i limiti della sfera della letteratura, ne ridimensiona la funzione, si oppone alla pratica di sopravvalutarla attribuendole compiti estranei: perché conosce l'unificazione dispotica, dove ogni attività intellettuale è indifferentemente ricondotta al controllo del popolo dall'interno delle coscienze, prima ancora che con mezzi violenti o polizieschi. "Nei periodi di dispotismo si può permettere l'esistenza degli intellettuali... Solo quando i movimenti di pensiero si trasformano in movimenti reali diventano pericolosi". Il dispotismo che ha alle spalle gli insegna il significato capovolto degli appelli "al servizio del popolo". Ma la rivendicazione di indipendenza non è per una liberale autonomia del mondo della cultura; al contrario, si identifica col riconoscimento della condizione di dipendenza del popolo: "I potenti non permettono che il popolo abbia libertà di pensiero, perché ciò decentrerebbe il potere". "Oppressi dal pesante fardello della tradizione, sfondiamo con una spallata la porta delle tenebre, affinché essi [i figli] giungano a un luogo aperto e chiaro", scriveva nel 1919. Negli anni successivi non venne meno al progetto di educazione e di rischiaramento né alla fiducia nella ragione: per intima solidarietà col popolo nella condizione oscura e perché sapeva collegarla con le zone d'ombra della coscienza, irrecuperabili dalla ragione unificante del potere. E assente in Lu Xun l'attesa di soluzioni definitive ai mah della società e alle contraddizioni fra gli uomini, di conciliazioni celesti trasferite sulla terra — ed è forse questo il suo materialismo di cinese e certamente la sua grandezza. Il sacrificio, l'oppressione e il sangue versato sono senza recupero e senza perdono. "Lasciate che seguitino a odiarmi, io non ne perdóno neanche uno", scrive dei suoi nemici, poco prima della morte. La capacità di lotta, di amore e di odio e la forza nel rappresentarli si fondano sull'assunzione dell'irrecuperabile e sulla volontà ragionevole, interamente nella dimensione biologica e terrestre. Mandarini e non Intellettuali e potere in Cina, a cura di Mario Sabattini, Atti del convegno, Venezia, 5-6 aprile 1990, Cafoscarina, Venezia 1993, pp. 210, Lit 20.000. La caduta dell'ipotesi di partecipazione popolare al potere comporta la stabilizzazione delle caste e dei compartimenti stagni culturali. La superficialità e la confusione giornalistico-televisive trovano un compenso nell'alto livello del sapere scientifico, riservato ai pochi felici. Ma il potere onnipervasivo dei media invade anche le menti dei pochi felici, con effetti di schizofrenia: la conoscenza acquisita nella sfera "alta" viene spesso neutralizzata o ridotta dalle banalità diffuse in quella "bassa", e in qualche misura recepite. Il problema della comunicazione al di fuori della propria casta si pone da oltre quarant'anni fra gli orientalisti italiani, ed è di difficile soluzione, a causa della quasi totale assenza di preparazione primaria del nostro pubblico sulla storia e le culture dei paesi asiatici, se non dove sono strettamente correlate alle vicende della colonizzazione europea. Il discorso rivolto a un pubblico generico, se pure genericamente colto, se non vuole ricadere nella banalità è costretto inevitabilmente a far uso di nozioni che quel pubblico ignora. Il comune lettore trarrà comunque più profitto da testi scritti da specialisti e indirizzati anche a lui (se pure poco comprensibili in alcuni particolari) che non dalle ripetitive raccolte di corrispondenze giornalistiche, troppo spesso infarcite di autentiche sciocchezze e fonte di pregiudizi, difficili poi da smantellare. Rendersi conto dell'altissimo livello della cultura cinese del passato, per esempio, è premessa indispensabile a capire qualcosa delle rivoluzioni del nostro secolo e della loro grandezza — non solo in termini quantitativi. Il rispetto formale oggi predicato da tutti per le culture "diverse" cela spesso un disprezzo sostanziale per tutto quanto viene classificato "premoderno". La società cinese, perché fondata su un'economia agraria-artigianale, è nell'opinione comune qualcosa di semiselvaggio, e si riscatta dall'inferiorità solo quando comincia a imitare l'Occidente moderno. È una visione distorta e colonialista, che si può correggere solo cercando di capire con umiltà che cosa sia stato il passato della Cina (e infine anche il nostro). È perciò da raccomandare la lettura di questa breve raccolta di saggi su un tema di grande interesse, enunciato nel titolo. Per intellettuali si intendono qui tanto i letterati della Cina imperiale — di cui trattano alcuni contributi — quanto le persone istruite, gli scienziati, gli scrittori e gli artisti dell'epoca contemporanea. Poiché riproduce i testi presentati a un convegno di carattere accademico, la raccolta include alcune ricerche monografiche di autori più giovani, preliminari a un approfondimento interpretativo e di interesse quasi esclusivamente specialistico. In altri casi il collegamento enunciato fra l'oggetto dello studio e alcune tesi di ordine generale in campo storiografico o filosofico resta al livello delle buone intenzioni e lascia in parte deluse le aspettative: così, nel saggio di Isaia lannaccone sullo sviluppo della scienza nel VI secolo, il riferimento ad Alfred Sohn-Rethel a proposito del parallelismo fra lo sviluppo del pensiero scientifico e quello dell'economia monetaria non è poi seriamente utilizzato nell'indagine specifica. Ma basterebbero alcuni dei saggi qui contenuti, come Ideologia e potere nella Cina premoderna di M. Sabattini, Lessicografia e autocrazia di G. Casacchia, e specialmente i due testi di P. Santangelo, uno di panoramica generale, l'altro sui secoli dal XVI al XVIII, per dare un'idea di come il rapporto fra potere e cultura sia stato centrale nel pensiero teorico e nella pratica politica in Cina — con alto grado di consapevolezza critica nell'epoca Ming (1368-1644) e nella prima metà dell'ultima dinastia. (e.m.)