Figli di nessuno di Carmen Concilio Jean-Francois lyotard, Letture d'infanzia, Anabasi, Milano 1993, ed. orig. 1991, trad. dal francese di Federica Sossi, pp. 190, Lit 24.000. Se ci volgiamo indietro, se ci volgiamo a guardare la nostra infanzia, non vediamo nessuno; anzi, meglio, vediamo proprio Nessuno. "Siamo i figli dell 'Odissea", di Odysseus, come di Omero. E volgendosi verso questa "infanzia", questa età soggetta a minaccia, inconoscibile — "che non si parla" —, minuta per definizione, ingenua — forse —, Lyotard ritrova i giganti che popolano le terre della letteratura: Joyce e Kafka, per cominciare. All'insegna del "nome del padre", di quel padre comune, si apre infatti l'Ulisse di Joyce. Ma Leopold Bloom, protagonista della moderna odissea, non si chiama Ulisse. E a partire da questo spostamento Lyotard ne svela altri. Bloom è meno Ulisse di quanto non sia invece ebreo. Condannato a lasciare la terra promessa, dove tenterà di fare ritorno, affronta un cammino che lo condurrà soltanto al confine più prossimo di quel miraggio, al limite del non ritorno. Bloom non torna a Itaca (ma resta a Dublino), non ritrova Penelope (Molly) per sé, né si ricongiunge con Telemaco (Stephen), poiché è prigioniero in un Egitto di schiavitù, il regno della donna; mentre l'Irlanda di Bloom è la sua stessa ebraicità. Questa in sintesi la lettura-sfida di un testo che non fini- NOVITÀ Giovanni Filoramo Figure del sacro Saggi di storia religiosa pp. 368, L. 35.000 Paul Ricoeur Il male Una sfida alla filosofia e alla teologia Postfazione di Paolo De Benedetti pp. 80, L. 10.000 Jean Séguy Cristianesimo e società La sociologia di Ernst Troeltsch a cura di Carlo Prandi pp. 368, L. 36.000 Karl-Heinz Volkmann-Schluck Nicolò Cusano La filosofia nel trapasso dal Medioevo all'Età Moderna a cura di Giovanni Santinello pp. 288, L. 35.000 sce mai di parlare la sua "lingua angosciata". L'angoscia, cifra della modernità come dell'infanzia. Chi per una volta sia stato travolto da Kafka ha perso la pace col mondo, dice bene Adorno. Come non pensare a La metamorfosi, La condanna, Lettera al padre, Nella colonia penale? E di quest'ultimo racconto Lyotard offre una lettura provocatoria e provocante, rendendo ragione delle complesse implicazioni metaforiche celate nel suo ordito come Idei libri del mese! MARZO 1994 - N. 3, PAG. 12 in forma retorica: se il rapporto tra il penale e il civile (tra etica e politica), possa essere giusto. Nell'infanzia, anzi nella nascita, Hannah Arendt vede invece "l'anello che non tiene", l'even-to-awento che con la sua potenziale e potente novità interrompe la catena del progresso storico, della tradizione. Novità che irrompe nella ciclicità, l'infanzia è però sopravvivenza solitaria e desolante; vive un interregno minacciato da nascita e morte, da passato e futuro, così come la democrazia sopravvive a due forme di totalitarismo, quello storico degli anni trenta e quello futuro della massificazione già in corso. Una lettura della propria "infanzia" era anche l'opera autobiografica di Sartre, Le parole, del '64, che quella frase diviene consistente. L'opera come atto (di Valéry) non è l'opera come oggetto o referente; è possibile libertà; è disordine. E da questo disordine nasce occasionalmente il giudizio estetico "Questa è arte". Giudizio che è pre- e a-concet-tuale; è affettivo; "puro", in senso kantiano. L'opera ha una voce e questa voce, sola, ne determina lo "stato affettivo". Della voce tratta anche l'ultimo saggio; meglio, delle voci nella psicoanalisi: la voce pubblica, inadeguata e infedele, dell'analista che espone il caso — nella fattispecie quella di Freud nel Caso clinico dell'uomo dei topi —, la voce angosciata del paziente in analisi, la vita raccontata; la vera voce del pa- MORCELLIANA Via G. Rosa 71 - Brescia V. Cadaveri squisiti di Cesare Cases Marco Denevi, Assassini dei giorni di festa, a cura di Angelo Morino, Sellerio, Palermo 1993, pp. 134, Lit 25.000. Era ancora fresco (o caldo) di stampa Rosaura alle dieci (cfr. la recensione del numero di febbraio) quando usciva un altro libro dello stesso autore, forse perché il curatore è stato qui aiutato da ben 19 suoi studenti della Seti (Scuola Europea di Traduzione Letteraria), con buoni risultati, d'altronde, poiché niente funziona meglio di un lavoro collettivo ben coordinato. Questo libro ci sembra più macchinoso e letterariamente meno buono dell'altro. La verità che vuol dimostrare è indubitabile ed è espressa da una citazione di autore ignoto che chiude (o quasi) la storia: "I cuori privi d'amore diventano crudeli, avidi e feroci come soldati stranieri in una città vinta. Si abbandonano al saccheggio e al massacro degli altri cuori, e trasformano i giorni di festa in notti di lutto" (di qui il titolo, in cui i giorni di festa sono un genitivo oggettivo e non un complemento dt tempo). I personaggi sono sei fratelli di ambo i sessi la cui naturale tendenza al "nero" prescritto dalla scuola di Buenos Aires si esplica nell'abitudine (pare che siano tutti emeriti fannulloni) di frequentare le veglie funebri della buona società bai-rese. Di qui ad approfittare di quest'opera di assistenza per derubare i morti e i loro parenti, il passo è breve. Ma un giorno la lettura quotidiana dei necrologi cui il sestetto si dedica li guida a un'enorme villa abitata, sembra, unicamente dal defunto. Rimasti soli, i nostri eroi frugando nelle stanze si imbattono nel cadavere perfettamente imbalsamato della giovane moglie del proprietario, valente tassidermista. Escogitano allora un piano diabolico. Una di loro, Lucrezia, assume aspetto e panni della defunta e si presenta come reduce da un lungo viaggio, pronta ad accogliere l'eredità del marito nel frattempo deceduto. Un avvocaticchio, Valerio, dovrebbe servire da intermediario. È un indio bruttacchiolo, sbeffeggiato dai fratelli, che per perfezionare la commedia impongono a Lucrezia di fingersi innamorata di lui. Tutto funziona a meraviglia e alla fine i fratelli restano legittimi padroni del campo. Ma senza Lucrezia, poiché costei si è innamorata davvero dt Valerio (e come potrebbe essere altrimenti, con quel nome da commedia settecentesca?) e attanagliata tra l'amore reale e la finzione cui si è volentieri prestata preferisce suicidarsi. Il tassiderni-sta aveva lasciato un manoscritto sull'arte dell'imbalsamazione, seguendo i cui precetti i fratelli possono immortalare Lucrezia al pari di colei di cui aveva assunto il ruolo. A raccontare le trame di Denevi si resta senza fiato. Perché questo finale non ci soddisfa? Anche la storia di Rosaura aveva un finale a sorpresa, ma lì la falsa Rosaura aveva assunto quella personalità senza saperne nulla e quando si scopre che è un'altra non c'è nessun dramma, per toglierla di mezzo ci vuole un assassino. Invece qui il lettore è invitato da una parte a tifare per dei cinici perdigiorno, dall'altra a commuoversi perché uno di essi ha un'anima. Nemmeno l'autore è sicuro da che parte sta, poiché dopo la citazione che riprova gli assassini dei giorni di festa un personaggio di nome Iluminada protesta: "E questo cosa c'entra con noi?" Se l'autore è davvero dalla parte dei sentimenti, questa Iluminada è poco illuminata, ma se è un seguace delle nuove etiche (tra cui quelle che sforna puntualmente il famoso Fernando Savater) forse sta dalla parte dei fratelli e alla fine tutto ricomincia da principio, con due bellezze imbalsamate che ne attendono una terza. pure delle relazioni tra i diversi piani: quello estetico (l'infanzia), quello etico (la legge scritta) e quello politico (la legge discussa). In ordine era IV-sthesis, lo stadio estetico della nascita o infanzia, del corpo nato fuori dalla legge. Ad esso si sostituisce violentemente lo stadio etico della legge che letteralmente s'incarna, si iscrive nel corpo. Nel conflitto così scaturito tra l'etica, crudele, e l'estetica, innocentemente colpevole, il corpo è condannato a morte. Nella colonia penale non un innocente è condannato, ma la colpa dell'innocenza. Quando tale condanna diviene pubblica rappresentazione, cioè politica, discutibile e criticabile, permane appunto un dubbio, indicativamente espresso da Lyotard serve da pretesto a Lyotard per rintracciare alcune istanze polemiche sollevate da un saggio di Denis Hollier. L'oggetto polemico è il linguaggio: la parola che il Sartre filosofo voleva militante e impegnata, prosastica e politica, di successo, cui si contrappone, in scacco, la parola poetica di Sartre scrittore. La storia di un "soggetto sconfitto dalle parole", insomma. Parole in forma in frase, come "Questa è arte", possono creare uno scacco, perché inconsistenti sul piano logico ed epistemologico. Ma Lyotard, con Valéry, ribalta tale inconsistenza nel suo contrario. Solo se si definisce l'opera dell'intelletto produttore — quella creata dall'autore e quella del consumatore fruitore — come in atto, Il treno ziente, la vita vissuta. Più ancora, è interessante la distinzione operata tra voce quale lèxis e quale phoné. La prima è voce articolata nel tempo, richiede un locutore e un destinatario, "comunica"; la seconda è muta, ma assorda, "si manifesta" come affetto, come il piacere o il dolore. Ed è questo affetto muto, è questo infante che non può ancora rispondere o raccontare, che l'analista deve saper cogliere. Affascinante questo, come gli altri saggi contenuti nel volume in cui è sempre la categoria di tempo a mettere in luce le aporie o i punti di crisi che garantiscono l'appiglio o l'approdo per una lettura filosofica condotta da Lyotard all'ombra di Kant e in misura minore di altri pensatori. ha fischiato REMO Ceserani, Treni di carta, Marietti, Genova 1993, pp. 281, Lit 38.000. "Al primo chiaro, quando / subitaneo un rumore / di ferrovia mi parla / di chiusi uomini in corsa...", il treno. Il treno di cui basta ascoltare il lontano rumore — suggerisce Montale — per immaginare le storie che trascina con sé. Di questo fascinoso rumor di storie si occupa appunto Ceserani che di Montale cita un altro dei Mottetti pure dedicato al treno: storie di treni letterari, dunque, che viaggiano lungo i binari della modernità. Come il rumore del tuono aveva portato scompiglio sulla terra agli inizi della storia, la rumorosa apparizione del treno, uno dei simboli delle "magnifiche sorti e progressive" del primo Ottocento, ha destato sgomento tra gli intellettuali che vedevano aggirarsi per l'Europa questo precoce spettro dell'industrializzazione. Alimentato da forza ctonia, dal carbone delle miniere sotterranee, il treno è per i primi romantici una mostruosa creatura che irrompe dal sottosuolo, che corre a proprio agio nelle tenebre, che traversa i monti e disdegna la natura. Ma in quanto luogo letterario il treno è anche strumento magico, favoloso e fatato. Si avvale infatti di una doppia prospettiva: "teatrale", cioè costretta in luoghi più o meno angusti, quali lo scompartimento, il corridoio, stazioni come cattedrali gotiche, sale d'attesa; e "cinematografica", aperta al mondo esterno che scorre sullo schermo del finestrino. Luogo d'incontro e metafora di una vita che talvolta procede su binari regolari, talvolta se ne discosta e devia, sceglie l'ignoto, affronta l'incidente o giunge puntualmente alla stazione terminale. Metafora di vita che facilmente s'impone alla struttura narrativa, come ne La bestia umana, il romanzo ferroviario di Zola, cui viene dedicato uno studio approfondito. La scelta dei .testi ispirati all'ambiente ferroviario è varia e documentata, e va dalla letteratura in prosa e in versi alle canzoni popolari, dalle fiabe alla saggistica. Ma, avverte l'autore, potrebbe deludere: ogni scelta è selettiva per definizione e il lettore magari non ritrova i cari testi del suo personale bagaglio ferroviario-letterario. La tecnica della giustapposizione di toni ora entusiastici e ora critici nei confronti del treno, le voci discordi, così alternate, danno ai saggi un ritmo peculiare che non può non evocare il regolare procedere di vagoni sui binari. E questo treno che attraversa parte dell'Europa, sostando presso autori inglesi, francesi e tedeschi, e che dalla Russia porta alla "frontiera" americana, annuncia la fine del viaggio proprio con quel noto rumore, quel familiare "fischio" che Pirandello associa all'alienazione e alla follia liberatoria dell'uomo moderno. Non un saggio sulla letteratura di viaggi è quindi questo di Ceserani, quanto invece un saggio-viaggio fra e su i treni della nostra tradizione letteraria, sempre più transcontinentale — anche proprio grazie a quei treni, reali o di carta che siano. (c.c.)