L'INDICE ■ dei libri del meseBH GIUGNO 1994 - N. 6, PAG. 7 Il Libro del Mese < osservò già il La Penna in un articolo sulle Pagine stravaganti (1952, rist. in AA.W., Per G. Pasquali, Pisa 1972, pp. 78 sg.), che tuttora vorremmo che fosse riletto (mi sia lecito rinviare anche alla mia premessa alla ristampa della Preistoria della poesia romana, Firenze 1981, p. 45). Del resto, il saggio sul Barbi, pur non contenendo palinodie, rivela verso gli studi sul folklore un atteggiamento assai più comprensivo (cfr. II, pp. 446 sg.). Il Vitelli, che aveva designato Pasquali come suo successore a Firenze, è caratterizzato mirabilmente, come uomo, come finissimo conoscitore di stile greco, come papirologo eccelso. Ma un breve accenno al disprezzo che egli aveva per ogni riflessione sul metodo in critica testuale (non soltanto per quel metodo meccanico e precettistico che Pasquali odiava egualmente) ci fa intravedere una diversità di forma mentis sulla quale, più tardi, abbiamo saputo qualcosa di più. Il tono generale del ricordo di Wilamowitz è talmente ammirato e commosso, che il lettore non si accorge di alcune non lievi riserve, che compaiono anche in altri scritti pasqualiani. Oggi sappiamo che il grande affetto di Pasquali per Wilamowitz non fu contraccambiato: il Wilamowitz, a quanto pare, rimase ferito da alcuni dissensi che Pasquali, quando partecipò ai suoi seminari berlinesi, espresse senza la dovuta venerazione per il Maestro non abituato al minimo dissenso; e si oppose con durezza e, insieme, con una certa ipocrisia a una proposta di chiamata di Pasquali in un'università tedesca (cfr. la prefazione a Pasquali, Rapsodia sul classico, dove sono raccolti i contributi all' Enciclopedia Italiana, Roma 1986, p. 26; C. J. Classen in G. Pasquali e la filologia classica del Novecento, a cura di F. Bornmann [Atti del Congresso su Pasquali del 1985], p. 144; e le lettere a Jaeger ed. da W. M. Calder, III, Napoli 1983, pp. 171-73 e 193, che entrambi abbiamo citato). Di tutto ciò Pasquali non dovette saper mai niente 0 quasi niente; se pur lo avesse saputo, avrebbe egualmente avuto ragione di difendere la memoria di Wilamowitz e la propria libertà di giudizio contro un basso attacco di Ettore Romagnoli (ristampato in appendice a Filologia e storia, a cura di A. Ronconi, pp. 91-94). Più tardi i suoi rapporti col Romagnoli, che egli aveva sempre combattuto con lealtà e senza disconoscerne i meriti, migliorarono sul piano personale, poco prima che il Romagnoli morisse. Ma, se la "stravaganza" intesa come rifiuto dell'angustia specialistica, come esigenza di trattare i problemi da tutti 1 lati, coi mezzi forniti dalle più varie discipline, rimase una caratteristica costante di tutta l'opera di Pasquali (quell'esigenza la troviamo ripetuta in tutti gli scritti di Pasquali, maggiori e minori), i volumi di cui ci occupiamo qui rivelano una tendenza ad accogliere, man mano, anche scritti più inerenti alla filologia classica e alla storia antica: non a caso la seconda serie s'intitola Pagine meno stravaganti, e la tendenza rimane, forse anzi si accresce, nella terza serie (cfr. la prefazione, II, p. 3), nella quarta (cfr. II, p. 273), nei due scritti aggiunti alla riedizione della prima (cfr. I, p. 1). E se i saggi "specialistici" delle Pagine meno stravaganti (non li enumero per mancanza di spazio), pur tutti ricchi di fascino e di idee acute, non sono tra le cose filologiche migliori di Pasquali — il migliore è, direi, Acheruns Acheruntis, cioè il più tecnico; meno tecnico e non propriamente filologico, ma mirabile per il modo con cui Pasquali seppe rivivere la concezione largamente storica che della paleografia aveva avuto il Traube, è, già nella prima serie, Paleografia quale scienza dello spirito —, le Terze s'iniziano con La grande Roma dei Tarquinii, una sintesi geniale che ha poi avuto, per opera di archeologi e di alcuni linguisti, non confutazioni ma sviluppi (influssi greci su Roma furono ancora precedenti al VI secolo a.C.) e continua con L'idea di Roma, importante soprattutto per l'atteggiamento di scrittori e pensatori greci di fronte ai primordi e poi alla grande espansione della potenza romana (si desidererebbe solo qualche parola sul coraggioso discorso antimperialistico di Cameade nella famosa ambasceria del 156 a.C.). Tra i saggi che in qualche modo si collegano con questo, particolare attenzione merita Roma in Callimaco. E nella quarta serie eccellono la conferenza su Plauto (che ha i suoi precedenti in lavori più ampi, specialmente in Plautinisches im Plautus di E. Fraenkel, ma, a mio avviso, segna un passo avanti anche rispetto al capolavoro fraenkeliano, cfr. Rapsodia sul classico cit., prefaz., pp. 24 sg.) e l'articolo metodologico, del 1942, Arte allusiva-, "in poesia eulta, dotta, io ricerco quelle che da qualche anno in qua non chiamo più reminiscenze ma allusioni, e volentieri direi evocazioni e in certi casi citazioni" (più oltre parla anche di "variazioni"): l'autore vuole che il lettore si accorga di un passo d'un autore precedente (talvolta quasi contemporaneo, talaltra molto più antico e divenuto "classico"), ma nello stesso tempo si mette in gara con lui, vuol superarlo in raffina- tezza o in intensità: è, indagato in modo più approfondito, quello che già gli antichi rètori (e ancora Pasquali nell'Orazio lirico) avevano chiamato zélos. Pasquali mostra come questo procedimento si ritrovi anche nella musica, anche nelle arti figurative; ma si sofferma soprattutto sulla poesia, accennando prima a poeti italiani (qui gli esempi potevano forse essere scelti meglio: che la maggior parte della produzione petrarchistica del Cinquecento meriti la dignità di "arte allusiva", dubiterei), poi a greci e latini, soffermandosi in particolare su Virgilio. Come Croce abbia rozzamente frainteso questo saggio, altri ed io abbiamo già notato. Più tardi, del termine pa-squaliano si è abusato; si è anche voluto approfondire teoricamente il concetto, col rischio di fargli perdere la sua specificità, che è l'esigenza più importante. Su un altro articolo metodologico, anteriore di parecchi anni, La scoperta dei concetti etici nella Grecia antichissima (I, pp. 288-303), è più difficile dare un giudizio equo. L'esigenza che rimane del tutto valida è la legittimità di studiare poeti-pensatori, senza per questo ridurli a filosofi professionali: in questo, Pasquali trovò un alleato in Mondolfo e (con presupposti diversi) in scritti di Jaeger in parte precedenti, in parte successivi; oppositori nel cro-ciano-pasqualiano Perrotta e (ciò può meravigliare alquanto) in Calogero. Vi sono invece, credo, forzature nelle in- terpretazioni di passi singoli, specialmente eschilei; e, soprattutto, Pasquali, movendo da un'etica approssimativamente kantiana, non vide che più si afferma il libero arbitrio umano, più insolubile diviene il problema della teodicea (altrettanto insolubile diviene se, negando il libero arbitrio, si cade, con gli Stoici, in una concezione provvidenzialistica della divinità). Sul Medioevo bizantino la condanna, come molti hanno rilevato, è troppo sommaria, e Pasquali fa troppe concessioni a quel "valore universale, paradigmatico" della grecità clas- sica che era risorto col neoumanesimo jaegeriano che non aveva fin allora riscosso le sue simpatie, che più tardi egli giudicherà ancor più negativamente (nella postuma Storia dello spirito tedesco..., Firenze 1953, pp. 123 sg.); giustificati, credo, rimangono il fastidio per il bizantinismo lussurioso-decadente di romanzieri francesi e del D'Annunzio, e la preoccupazione che nelle università s'indirizzassero troppo i giovani alla bizantinistica perché nel campo greco classico ed ellenistico tutto era stato già detto; temo che oggi questa preoccupazione ritorni ad avere qualche validità. Ripubblicando il primo volume, Pasquali, come si è accennato, vi aggiunse due scritti esemplari: Alessandro all'oasi di Ammone e Callistene (del 1929-30,1, pp. 213-22, dove, contro il pur grande papirologo Wilcken e contro lo storico Berve, si rivendica il diritto del filologo a interpretare esattamente una testimonianza di Callistene e s'interpreta con finezza la psicologia di Alessandro Magno, facile a credere nella propria origine e missione divina), ed Ennio e Virgilio (pp. 223-40: traduzione italiana di una recensione all'Ennius und Vergilius del Norden, uscita in una rivista tedesca nel 1915 e rimasta, a causa della guerra, pressoché ignota; del resto alcune osservazioni di Pasquali non hanno avuto, nemmeno dopo, il riconoscimento che meritavano). Dell'interesse di Pasquali per la linguistica greca, latina e, specialmente da ultimo, anche italiana, i documenti vanno cercati soprattutto altrove. Ma qui (I, pp. 123-33; II, pp. 329-35) sono ripubblicati due articoli-recensioni di prim'ordine: Il latino in iscorcio (sull'Edotte d'une histoire de la lan-gue latine di A. Meillet, "il maggiore di tutti i glottologi francesi e il più lucido di tutti i glottologi viventi") e Lingua latina dell'uso (sulla Lateinische Umgangssprache di J. B. Hofmann: qui i meriti dell'insigne studioso sono riconosciuti, ma forti sono le obiezioni: specialmente, eccessivo appiattimento sincronico, erronea identificazione di "lingua usuale" e "linguaggio affettivo"; è stata ottima cosa che il volumetto di Hofmann, pur sempre prezioso, sia stato tradotto e curato da Licinia Ricottilli e sia giunto alla seconda edizione, Bologna 1985; ma rimane in me l'impressione che l'entusiasmo della curatrice, basato del resto su vasta conoscenza di linguistica teorica recente, sia un po' eccessivo: d'altronde, nelle note, essa dà sempre ragione alle singole obiezioni di Pasquali e di altri critici). Ma anche su autori moderni vi sono saggi da non dimenticare: Poesia latina di Pascoli e Classicismo e classicità in G. D'Annunzio (II, pp. 176-89 e 190-204). Sul Pascoli latino abbiamo oggi un insieme di lavori di Alfonso Traina, che hanno portato questi studi a un livello difficilmente superabile; rimane a Pasquali il merito di aver veduto per primo nel Pascoli latino, contro Croce, "l'arte e gli spiriti del Pascoli italiano", non la consunta tradizione della poesia latina della Controriforma, né un mero riecheg-giamento dei poeti antichi, che egli pur conosceva a fondo. Vi sono, certo, in questi volumi anche scritti che possono esser goduti anche da chi non s'interessi di studi filologici né di riforme scolastiche: il fine, ben noto Ritorno a Gottinga, il Ricordo dell'aviatore Francesco Brunetti (che io rileggo con grande rispetto e pietas senza potermi liberare dalla consapevolezza che l'"ideale umano" impersonato da Brunetti è troppo lontano dalle mie idee), il Ricordo di Cesarino Paoli (questo, sì, mi commuove senza riserve), Il "Cuore" di De Amicis, che Pasquali legge insieme con un nipotino, e il modo di leggere, impaziente, di un bambino è caratterizzato perfettamente, e su Cuore vi sono osservazioni nuove e acute, ma sul cosiddetto "socialismo deamicisiano" c'è un fraintendimento duro a morire: Cuore è anteriore alla conversione di De Amicis al socialismo, che fu una vera e seria conversione anche quanto a informazione teorica, con una forte tendenza a far pro-prii anche motivi anarchici, e dette luogo a un romanzo, Primo Maggio, che l'autore rinunciò a rifinire e a pubblicare (è uscito postumo nel 1980), senza per ciò venir meno alle proprie idee: un romanzo che non è un capolavoro, e tuttavia non si può sottovalutare nemmeno sul piano artistico. La discussione è ancora aperta: che cosa oggi ne avrebbe pensato Pasquali, è del tutto vano chiedersi. Molto altro ci sarebbe da dire su libri così pieni d'intelligenza e di fascino. Ma temo di aver già violato le esigenze di spazio dell"'Indice", e mi fermo. <1 con lui, più ancora che di Platone, degli studenti, dei seminari e del modo di vivere e di operare in una scuola universitaria che andava rapidamente mutando sotto i nostri occhi in quel complicato dopoguerra. Pasquali, infatti, studioso in più campi gemale, pieno di interessi e di curiosità d'ogni genere, e sempre generoso di spunti straordinari, fu innanzitutto un maestro eccezionale. Dire di lui, dotto di altissimo livello, che la scuola fu lo scenario di tutta la sua vita, può sembrare retorico, ma è pura verità. Né so dimenticare che, pur avendolo conosciuto quando ero ancora un ragazzino (aveva fatto amicizia con mio padre alla scuola di Girolamo Vitelli), riusciva sempre a meravigliarmi e a confondermi quando frequentavo l'università, pur non avendo mai seguito i suoi corsi ("facevo" filosofia). Attaccava discorso con tutti: nei corridoi, in biblioteca (si trovava sempre in qualche biblioteca), per la strada, al caffè. Chiedeva delle nostre letture, parlava di teatro, dei libri, col suo modo inimitabile, e poi, d'un tratto, "fuggiva". Ma intanto aveva detto la sua, così di un testo di Freud come di un verso osceno di Plauto, di un'attrice che recitava al teatro Niccolini o di un concerto a cui lo avevamo incontrato. E avrebbe ricominciato, magari passeggiando con un piccolo gruppo sui colli. Aveva capito il nesso profondo fra insegnamento (non solo universitario, ma a ogni livello) e ricerca teorica e indagine storica, e, più a fondo, fra scuola e concezione della vita. Proprio in quel nesso, anzi, sono da cercarsi le radici del suo più fecondo lavoro di studioso: il dialogo serrato, non solo con Comparetti e Vitelli, ma con Mommsen e Wilamowitz, e, più a fondo, con Usener e con Warburg, magari con un segreto richiamo a Nietzsche. E poi pagine non dimenticabili su Pistelli, anzi su Padre Pistelli, sul suo modo di vivere la vita dell'Ordine, sulla sua filologia, sui suoi rapporti con Villari e Savonarola, sui bambini e Le pistole d'Omero: i bambini per cui aveva perfino fatto "politica" e che, morente, voleva intorno alla sua bara. Non è facile, credo, leggere bene oggi queste "stravaganze", così unitarie nel fondo, anche se distese lungo un quarto di secolo, e così diverse, a prima vista, nei toni e negli spunti. Ma Pasquali era proprio così: ti dava l'impres- sione di fare dei salti fra motivi lontani, e poi ti accorgevi del nesso di fondo di un discorso unitario. Così certo non a caso, proprio parlando del suo Wilamowitz, si abbandonava ad asserzioni di principio ("non si può essere filologo grande senza essere storico"), o a nette preclusioni ("intender tutto Platone senz'essere filosofo è impresa disperata"), ricordando insieme il giovanile scontro di Wilamowitz con Nietzsche e il suo libro su Platone del 1919, lui che proprio allora scriveva sottili "stravaganze" sui "concetti etici nella Grecia antichissima" (e avrebbe scritto un libro su Le lettere di Platone,). In realtà i volumi delle Pagine stravaganti, con quel loro saltare nei decenni per riprendere a distanza sempre gli stessi argomenti, sottolineano, per chi sappia leggere, una sistematica esplorazione di alcuni aspetti della cultura europea fra Ottocento e Novecento. Si potrà dissentire, si dovrà soprattutto sentire il peso del tempo che è passato sui Pascoli e sui D'Annunzio. Emerge comunque dalle diecine di scritti un panorama singolarmente unitario della vita culturale italiana nella molteplicità dei suoi aspetti e nel suo confronto con la cultura europea, specialmente di lingua tedesca. E se sembrano predominare gli studi di filologia classica, in realtà svelano i loro problemi e i loro segreti gli editori di testi antichi e moderni, ipapirologi, i medievalisti, i linguisti, i giuristi, gli storici dell'arte, i bibliotecari — nella vicenda dolorosa degli uomini fra una guerra e l'altra, fra una tirannide e una persecuzione. Al centro la scuola come esemplare punto d'incontro fra uomini e generazioni, in cui le stesse divergenze possono confrontarsi e risolversi. Se si riusciranno a leggere come la memoria di un'epoca, fra l'avvio della prima guerra mondiale e l'esito della seconda, nei suoi dibattiti culturali più alti, ma anche in certi echi equivoci e sciocchi del fascismo imperante, le "stravaganze" di Pasquali appariranno, come sono, uno dei grandi libri di un'epoca drammatica, ma quasi purificata e pacificata attraverso la scuola. Come scrive Pasquali nell'indimenticabile Ritorno a Gottinga: "Sono tornato alla città della mia giovinezza, accademica eppure non disumana,...dopo anni e anni...".