SETTEMBRE 1994 - N. 8, PAG. 19/111 Letteratura tedesca CURT Goetz, Tatiana, postfaz. di Guido Fink, Giunti, Firenze 1993, trad. dal tedesco di Ervino Pocar, pp. 91, Lit 10.000. Curt Goetz (1888-1960), autore di vivaci atti unici, emigrò in Svizzera nel '33 e negli Usa di Hollywood dal '39 al '46. In questo breve testo del 1946 Goetz gioca con le corrispondenze: la struttura è quella del racconto nel racconto, in funambolico equilibrio tra due termini temporali, 1933 e 1945, che segnano una vicenda in cui la follia individuale diventa parabola di una follia collettiva. Nel '33 lo stimato chirurgo Boris Leventiev assiste a Kolberg, sul Baltico, al concerto dell'affascinante violoncellista tredicenne Tatiana. Boris ne è travolto. L'immagine di moglie e figlie è relegata in una "vita anteriore" dall'erotismo quasi ipnotico di Tatiana e della sua musica. Dopo una tournée trionfale in Europa, gli amanti partono per l'America, dove Tatiana muore improvvisamente, e dove Boris sopravvive fino al '45; le sue ceneri verranno unite a quelle di lei. Storia di seduzione musicale e sensuale, dunque, dove l'ordito allude a scenari più ampi. Questo 1933 secerne infatti una febbre nervosa che contagia il pubblico europeo di Tatiana, rendendolo delirante; la giovane violoncellista disprezza il suo pubblico; gli lancia la musica in faccia "come si butta un osso al cane", lo umilia (richiamando il ben più devastante Cipolla in Mario e il mago di Th. Mann). Tatiana, ovvero come un autore di lievi intrecci mette in maschera la temperie di un'età incenerita. Gabriella Aimassi Elias CaneTTI, La tortura delle moscie, Adelphi, Milano 1993, ed. orig. 1992, trad. dal tedesco di Renata Colorni, pp. 174, Lit 20.000. Come già nelle precedenti raccolte La provincia dell'uomo e II cuore segreto dell'orologio, anche in questi nuovi Quaderni di appunti il pensiero di Elias Canetti si rivela in tutta la sua originalità. Il titolo si riferisce a un ricordo di Misia Sert sull'eccentrica e sadica abilità di trafiggere e collezionare mosche, senza tuttavia ammazzarle. Ogni microstoria si trasforma nella scrittura di Canetti in un mito, e il mito della "tortura delle mosche" si offre come il possibile paradigma per osservazioni sparse in tutto il volume sul rapporto tra uomo e animali, e dunque — secondo l'autore — tra uomo e uomo. "Ogni specie animale che muore — scrive infatti Canetti — rende meno probabile che noi si continui a vivere. Solo al cospetto delle loro fisionomie e delle loro voci noi possiamo rimanere uomini. Le nostre metamorfosi si logorano quando si spegne la loro fonte". Il tema della metamorfosi, categoria tra le più importanti di Massa e potere, ritorna così prepotentemente in questo libro. Ma il pensiero di Canetti è da sempre asistematico e predilige percorsi rizomatici, privi di un vero centro. Si tratta di variazioni che muovono da una costellazione ossessivamente costante (il potere, il linguaggio, la morte) per irradiarsi in tutte le direzioni. Rilevante è una tendenza stilistica a rendere sempre più scarna la frase, un'arte scultorea del "levare" che crea mirabili costruzioni sintattiche, tradotte con grande eleganza da Renata Colorni, e che si accordano perfettamente con l'enunciato di uno degli aforismi della raccolta: "Eliminare le parole enfatiche. Che il pensiero stesso sia forte, non lo slancio con il quale lo esprimi". L'antropologia poetica di Canetti non ha mai rincorso gli eventi della storia. E tuttavia appaiono in chiusura di volume trasparenti accenni alla guerra del Golfo e alle trasformazioni in atto dalla caduta del muro di Berlino. "Una cosa è sotto gli occhi di tutti ed è incontrovertibile: non esiste una storia della quale si possa prevedere l'andamento. La storia è sempre aperta. Nessuno agisce nel senso della storia perché nessuno conosce questo senso. E probabile che esso non esista. Ciò significherebbe che la storia, nella sua apertura, è sempre influenzabile, e dunque per così dire nelle nostre mani. Forse queste mani sono troppo fiacche per orientarla in qualche modo. Ma poiché non sappiamo neanche questo, è nostro dovere provarci". Luigi Reitani Johann Wolfgang Goethe, L'uomo di cinquant'anni (Tre racconti), a cura di Giovanni Sampaolo, Castel-vecchi, Roma 1993, pp. 212, Lit 18.000. Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister sono un'opera che, per la vastità e la sua intrinseca complessità, prima dei lettori, non lusinga soprattutto gli stampatori. L'operazione proposta da un giovane editore romano, a cura di un altrettanto giovane ma esperto germanista, ha una sua legittimità, che tuttavia va al di là di queste ovvie ragioni editoriali: sono qui proposte, in una fresca e gradevole traduzione dello stesso Sampaolo, le novelle ospitate nel terzo Meister, piccoli capolavori, perfettamente autonomi, anche se avulsi dalla vasta cornice che Goethe aveva immaginato per queste sue prove narrative. Le tre novelle sono L'uomo di cinquant'anni, Troppo oltre e Chi è il traditore?, composte fra il 1807 e il 1828: delle tre, la prima, che dà il titolo a questo volumetto, è la più famosa, perché è fra le fonti ispiratrici del capolavoro di Thomas Mann, La morte a Venezia. Non irretito dalla grazia dell'efebo Tadzio, ma dalla seducente malizia della nipote Hilarie, è un anziano maggiore a riposo, intento a riflettere sul tema della vecchiaia al pari di Aschenbach. II maggiore sfida il daimon del Tempo additando nella Natura il suo acerrimo nemico, in ciò precorrendo i gusti di un altro epigono goethiano, vale a dire Baudelaire e il suo famoso Éloge du maquillage. Come nel caso dell'ultimo Faust, così in questo "ultimo" Meister s'individua una facile via di accesso per penetrare all'interno dell'opera goethiana. Alberto Cavaglion Leopold von Sacher Masoch, il Raffaello degli Ebrei, Mobydick, Faenza 1994, ed. orig. 1882, trad. dal tedesco di Franca Ortu, pp. 139, Lit 18.000. Un nome, quello di Sacher Masoch, che inevitabilmente viene associato alla psicopatologia sessuale o alla letteratura erotica. In realtà egli fu anche un autore di pregevoli novelle e di romanzi, in gran parte ambientati nella natia Galizia. Il Raffaello degli Ebrei — pubblicato per la prima volta in Italia in questa edizione curata da Franca Ortu — fa parte appunto di una raccolta di racconti galiziani, ispirati a quel colorito e suggestivo mondo ebraico orientale che ci è diventato familiare attraverso le pagine di Roth, Alechem e Singer. I racconti di Sacher Masoch non hanno tuttavia la stessa vitalità epica, sono più malinconici e dominati dall'ossessione della morte, con momenti di intenso lirismo e di poesia della natura. L'autore è in fondo un outsider che guarda con nostalgia al profondo legame del popolo ebraico con le proprie tradizioni. Tale atteggiamento contraddistingue anche il protagonista della vicenda, il pittore Plutin, diviso tra odio e amore, attrazione e repulsione nei confronti degli ebrei che, proprio per questa ragione, divengono il soggetto privilegiato, se non esclusivo, della sua arte pittorica — sempre in bilico tra la celebrazione accorata e la caricatura malevola. Il fatalismo slavo predispone in qualche modo il pittore a subire il fascino della vitalità ebraica, anche se la tragica conclusione dell'amore per Hadasska lo spingerà alla fine verso un'ascetica rinuncia alla felicità terrena. Riccardo Morello Franz Fuhmann, Kameraden, Theoria, Roma-Napoli 1994, ed. orig. 1977, trad. dal tedesco di Giulia Ferro Milone, pp. 198, Lit 26.000. Una felice sorpresa, questo libro di racconti (otto per l'esattezza). Per parecchi motivi. Anzitutto perché, seguendo a breve distanza di tempo la pubblicazione in Italia di un primo volume, sempre di racconti, attesta una rapida introduzione del nome di questo eccellente scrittore tedesco contemporaneo (anche se deceduto da un decennio) nel circuito di letture italiano; subito dopo per il fatto che, l'autore appartenendo alla non numerosa schiera degli scrittori orientali, fa convergere molto giustamente i riflettori su una produzione che oggi (soprattutto), a parte l'intrinseca validità, emerge nettamente sulla non certo mordente narrativa tedesca in generale. I primi tre racconti sono stati scritti negli anni cinquanta, il quarto nel 1962, e gli altri via via nel decennio seguente. Il quar- to era già apparso nel primo volume fuhmanniano (col titolo La Boemia in riva al mare e l'aggiunta di alcuni brevi racconti mitologici tardi, Marietti, 1993) e ha una sua precisa collocazione; ma particolarmente interessanti sono, qui, i primi tre: Kameraden, Il tribunale divino, La creazione. L'autore (1922-84), fino ai ventidue anni un convinto soldanto nazista e poi prigioniero in Russia, divenuto da cèco evacuato cittadino della Ddr, traccia con questi racconti ben meditati e calibrati schizzi interiori dell'educazione ricevuta e dell'atmosfera giovanilmente subita, prima della "conversione" a quella che rimarrà la sua profonda e maturata ottica esistenziale. I tre soldatini di Kameraden, sgomenti e vigliacchi di fronte all'involontario incidente mortale di cui si rendono colpevoli, hanno modo di far sfoggio della visione del mondo animalesca e così poco "cameratesca" di cui sono vittime. Il sottofondo di razzismo che percorre II tribunale divino (un episodio dell'occupazione della Grecia) aggiunge fogliame eloquen- te all'albero educativo nazista, pur nella variopinta vivacità di atteggiamenti e comportamenti. Nella Creazione, il discorso sale di tono: la sicumera del soldato Ferdinand W., così impermeabilmente avvolto dalla nube della mistica nazista, offre a confronto la paziente miseria del povero materiale umano ch'egli è addestrato a bistrattare, come un compito impostogli dall'alto e sancito da leggi imperscrutabilmente divine. La sostanza sapiente del discorso narrativo fuhmanniano, alimentato da molteplici esperienze, percorre la levità degli altri racconti: una gita infantile in mare e un gioco a carte in Strelch, l'ingiustizia di una punizione scolastica in Canto indiano, le venature dell'inconscio nell'amoroso furore di due fanciulli in II fiore del temporale; e infine, la conviviale seduta d'un consiglio d'azienda in una miniera di sale, sotto gli occhi d'uno scrittore, in Storia di specchi. * Maria Teresa Mandalari Heiner Muller, Tutti gli errori. Interviste e conversazioni 1974-1989, postfaz. di Gianfranco Capitta, Ubulibri, Milano 1994, ed. orig. 19861990, trad. dal tedesco di Roberto Menin e Raffaele Oriani, pp. 237, Lit 42.000 Sarcastico, affilato, l'autore di teatro in lingua tedesca oggi più rappresentato in Europa insegue in queste interviste le linee complesse di un'identità nazionale in via di trasformazione. Se a ovest — negli anni settanta — Muller rileva l'arroganza di chi ha perso la guerra hitleriana ma ha poi vinto quella economica, a est si vive per contro "il trauma dei rivoluzionari che non sono riusciti a vincere con le proprie forze". Sul continuo pungente contrappunto tedesco poggia d'altra parte il teatro di Muller, spesso al centro di queste conversazioni, così che — oltre a menar fendenti in varie direzioni: la Nato, i media, l'industria del tempo libero — gli interventi dell'autore qui raccolti si propongono anche come una guida alla lettura dei testi. Sempre guizzante e imprevedibile, Muller non esita a scendere nell'ossario del comunismo mettendo in evidenza le voragini dell'Est europeo ma resta saldamente convinto che la cultura tedesca non possa trarre alimento se non dalla tradizione di sinistra. Malgrado "tutti gli errori", appunto. Anna Chiarloni JURG FeDERSPIEL, L'uomo che portava felicità, Marcos y Marcos, Milano 1994, ed. orig. 1966, trad. dal tedesco di Emilio Picco, pp. 186, Lit 16.000. "Sai che aspetto ha?" domanda uno dei bizzarri personaggi di questi racconti all'amico che ogni giorno attende di veder uscire dalla clinica in cui è ricoverato LUCPF, ovvero l'uomo che porta la felicità. "Non esattamente — risponde l'interpellato. — Lo hanno portato qui di notte, sul giornale non c'era la sua foto. Ma me lo posso immaginare". Immaginare LUCPF signi- fica cogliere i fuggevoli bagliori di felicità imprigionati nelle fitte maglie della prosaicità quotidiana. Inebrianti rivelazioni che si concedono solo a chi sa abbandonarsi all'intuito creativo, alla genialità. La stessa genialità che rende unico ogni amore, poiché l'amore — come sentenzia il protagonista di un altro racconto — "è un'esigenza e una questione artistica". Narrate con piglio giornalistico e vena profondamente ironica, le storie stravaganti, a volte grottesche, di questo volume negano continuamente l'esistenza di un confine tra realtà e finzione, rivelano il gusto dell'autore per le pointes finali, che segnano l'irrompere, nel corso apparentemente quieto della vita, di un evento straordinario, tanto inaspettato quanto sconvolgente. Sono temi con i quali la letteratura elvetica ha ormai una lunga dimestichezza e di cui Federspiel, giornalista giramondo e prolifico autore di romanzi, racconti e pièces teatrali di successo, nato nel 1931 presso Zurigo, appare un ideale ed emblematico continuatore. Brunella Ascheri Per uno sviluppo al servizio deiruomo. Vita e Pensiero presenta il Rapporto emanato dalla Pontificia Accademia delle Scienze sulla attuale situazione demografica ed economica mondiale « Jj^VrrA e Pensiero V Pubblicazioni dell'Università Cattolica Per informazioni: o 02-72342310 LIBRI PER CAPIRE