Idei libri del mese I SETTEMBRE 1994 - N. 8, PAG 18/11 Letteratura italiana Giorgio Pressburger, Denti e spie, Rizzoli, Milano 1994, pp. 222, Lit 24.000. Di tutti i modi in cui si può analizzare la vita di un uomo, quello scelto da Giorgio Pressburger è sicuramente uno dei più originali: attraverso i denti, sagomate forme che affondano in radici ancestrali. Tutto ruota intorno alle peripezie del signor S.G., d'impre-cisata nazionalità centroeuropea, uomo di mille mestieri e di svariati amori, immesso in un indiavolato turbinio di luoghi, tempi e casi diversissimi; la sua croce e insieme il suo talismano è inscritto nella cavità orale. E sono davvero significative — oltre che d'irresistibile forza tragicomica — le avventu- re all'interno di questa cavità, perché forse non è diversa "da quella caverna in cui, secondo Platone, dimora la nostra anima". E allora, ecco l'incisivo inferiore sinistro testimone della storia d'amore più intensa e sciagurata; i tre denti collegati alle tre religioni monoteiste; le vicissitudini di un premolare collegato in modo sorprendente agli omicidi dei grandi protagonisti della politica mondiale. Ma, a pensarci bene, anche la Storia Universale non è che un "gigantesco tessuto": a ogni strappo, dolore e spargimento di sangue; e non esiste cura. Se destino dell'uomo è finire "senza denti, senza gusto, senza nulla", il destino della storia è affidato a una generale disintegrazione, che mette d'accordo il filosofo, il religioso e il dentista: "Tutto quel lavoro delicato, per nulla". E ci accorgiamo che anche questa volta, raccontandoci storie tragiche e grottesche di denti, Pressburger, scrittore grande, ci ha parlato della nostra, e dell'altrui identità. Maria Vittoria Vittori Nello SàITO, Quattro guitti all'Università, Bulzoni, Roma 1994, pp. 108, Lit 12.000. Nello Sàito cominciò come scrittore (Maria e i soldati, Gli avventurosi siciliani), poi divenne germanista e autore di teatro, ma sempre serbando un odio profondo per il mondo accademico, riversato soprattutto nella commedia I cattedrattici (1969), la sua opera drammatica più nota. In questo racconto, un po' arbitrariamente battezzato ro- manzo, l'artista antiaccademico è rappresentato da una compagnia di quattro guitti che dalla provincia sbarcano a Roma proprio il giorno in cui è morto il professore universitario cui vorrebbero rivolgersi. Assistono ai funerali, si danno da fare con la vedova (uno la violenta), poi occupano il teatro universitario dove si mettono a recitare Re Lear. La polizia la irruzione, e il violentatore di vedove fa fuori due poliziotti prima di bruciarsi lui stesso le cervella. I cattedrattici trionfano, ma non si esibiscono in un balletto finale. Gli artisti superstiti finiscono in prigione, dove Sàito ci inviterà certo ad andarli a trovare. È il destino della bellezza su questa terra, come dice un poeta tedesco noto al Sàito germanista. Cesare Cases Silvana Quadrino, La torta senza candeline, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 156, Lit 20.000. I "bambini quasi come gli altri" a cui si riferisce il sottotitolo del romanzo devono conquistarsi il loro posto nel mondo con tutta la forza disperata della richiesta affettiva. Hanno bisogno di tempo, di attenzione e di gioco, e con la loro presenza mettono a nudo problemi irrisolti e ipocrisie. La nascita di un bambino quasi come gli altri — sembra indicare l'autrice, che è una psicologa specializzata in terapia familiare — obbliga a guardare in faccia la verità, anche se in modo confuso e parziale. D'altra parte anche le tre madri, le cui storie corrono parallele, hanno pochi punti per stabilire un equilibrio: Anna scopre, attraverso l'arrivo di una figlia handicappata, il vuoto — occultato da una fitta rete di formalità — del rapporto con la propria madre e delle sue relazioni sociali; Gloria, tossicodipendente, non è in grado di occuparsi del piccolo Eric, che per un lieve danno cerebrale alterna stati di apatia a terribili crisi di panico; e Rita, che è la voce narrante e l'incaricata dell'appoggio domiciliare, si trova ad attendere un secondo figlio non desiderato dal marito. Tre maternità segnate dalla solitudine e dai riti quotidiani dei rapporti con i bambini: riti compiuti con senso del dovere, con voglia di fuga e anche con rabbia, laddove il luogo comune vorrebbe vedere solo commozione, fantasia e ilarità. Il vincolo con il figlio che trattiene e isola dal mondo, che riduce il tempo e determina le scelte professionali è saldo e resistente nonostante le prove a cui è sottoposto. Una delle più ardue è costituita dal rapporto con il compagno: imbarazzato e troppo impegnato il marito di Anna, latitante e vagheggiato invano il ragazzo di Gloria, silenzioso e metodico, fino all'ostilità, il coniuge di Rita. Per la parte maschile della coppia è sempre aperta una via di fuga; senza perdere la loro posizione di osservatori esterni, gli uomini muovono appunti e critiche, come se il bambino che si trovano in casa fosse davvero il frutto di un bizzarro capriccio della cicogna. Il romanzo coglie bene, mantenendo sempre viva la tensione emotiva, la fatica di questo cammino solitario che ogni donna compie con i propri mezzi, senza il coraggio di comunicare all'altra la propria pena. Solo Rita, con la sua scrittura asciutta e sincera, che segue il filo dei pensieri quotidiani, lascia trasparire qua e là la compassione di chi si è abituata a vedere la sofferenza: "Qualcuno li vede e qualcuno no. Quelli che tu chiami sfigati, dico. Quelli che hanno bisogno di aiuto. Se li vedi troppo bene, finisce che devi fare qualcosa". Il romanzo non ha quindi come unico oggetto il disagio —- rappresentato in modo efficace e convincente — di chi vive una situazione difficile, ma anche il senso di inadeguatezza che è ben noto a chi opera nei servizi sociali. Un sottile sentimento di non-perfetto e non-finito che rimane incollato anche al ruolo familiare e carica di nevrosi persino l'evento della nascita di un figlio: "il vuoto si sta trasformando in un puzzle inquietante. Troppi pezzi da sistemare, da far quadrare evitando che mi schiaccino. Le bambine. Il lavoro. La mia vita. Trovare un equilibrio. Almeno un compromesso". Monica Bardi Riccardo Ferrante, L'altomare, Marsilio, Venezia 1994, pp. 185, Lit 28.000. Gli anni sono quelli che abbiamo appena attraversato, da un plumbeo '77 a un corrotto '88. La storia è quella esemplare di una generazione che anelava a rovesciare il mondo, ed è venuta invece malamente a patti con più meschine ambizioni di guadagno. La città è Trieste, aperta però solo a tratti alle immagini solari in cui la beatificarono Saba e Quarantotti Gambini, rassegnata — più spesso — a far da sfondo alle corruzioni e alle degenerazioni private dei nostri recenti fallimenti. È l'amicizia, soprattutto — qui un'illusione come le altre — a caratterizzare la vicenda dell'avvocato Stefano e dell'amico Giulio: il primo coinvolto in azioni losche e redditizie, il secondo vittima di un antico tradimento che portò al suicidio di Teresa, la donna che amava, in un remoto inverno praghese. Stefano, per comodità e interesse, ha sposato Elisa, ma sopravvive in lui la colpa di ciò che accadde a Praga nell'80, quando fuggì abbandonando Teresa, tradendo sia lei sia la fiducia dell'ignaro compagno Giulio. "L'altomare", dice quest'ultimo, appassionato di vele e di spazi liberi tra le onde, "è l'unico momento in cui capita davvero di incontrare se stessi". E la resa dei conti finale, nel momento in cui perde tutte le sue certezze — l'amico, la moglie, il lavoro — è forse l'altomare di Stefano, che scompare tra le case di Trieste come dietro le quinte del metaforico teatro di questi anni. Giocato a incastri tra presente e passato, il romanzo di Ferrante rappresenta il fallimento di quanti, salpati da rivo- luzionarie utopie, hanno finito col perdere ogni contatto con la realtà, annebbiati da uno stile di vita artefatto, fasullo, che snatura le pulsioni neces sarie a un'esistenza dignitosa: l'amicizia e l'amore. Sergio Pent Anna Maria OrTESE, D mare non bagna Napoli, Adelphi, Milano 1994, ed. orig. 1953, pp. 176, Lit 24.000. Originariamente pubblicati da Einaudi nel '53, i racconti de II mare non bagna Napoli testimoniarono il raggiungimento da parte della Ortese d'una maturità e peculiarità di scrittura che la pose senz'altro al di fuori del filone neorealistico in cui all'epoca parve a taluno di inserire queste cronache, intese a tratteggiare una Napoli, appena uscita dalla guerra, "non più ridente e incantata o tambureggiante e grottesca, ma livida come una donna da trivio sorpresa da un subitaneo apparire della ragione". Ed è l'assoluto degrado d'una città fatiscente, cupa e malata, quello che emerge dalle pagine del Mare; una città descritta con crudezza tagliente e ossessiva, attraverso un registro narrativo febbrilmente acceso, a stento tenuto a freno da una scrittura pur sorvegliata, che qua e là esplode in figurazioni allucinate d'impianto surrealistico, dove sprazzi di realismo si trasmutano in evocazioni fantastiche, in visione oniriche o dell'incubo. Ma come sottolinea la stessa Ortese nella prefazione a que sta ristampa della sua opera, la rassegnata e tetra metropoli del Mare costituiva solo uno schermo — pur essendo "molto veri il dolore e il male di Napoli" — su cui proiettare il proprio spaesamento e la propria "nevrosi", dovuti forse all'incapacità di accettare la dimensione realistica di un esistere all'insegna della precarietà e del venir meno. Peraltro le pagine del Mare, appartenendo all'ambito narrativo, non intendevano certo millantare pretese saggistiche, e oggi paiono quasi incomprensibili le polemiche e le accuse di essere "contro Napoli", che accompagnarono l'uscita del libro. Da tutti i racconti, dunque, emerge veemente l'intollerabilità nei confronti di un vivere visto come sofferenza, privazione e morte, le cui ineludibili e angosciose presenze possono essere esorcizzate o tollerate solo mediante lo sguardo indiretto, lo specchio contemplativo della scrittura, che, risolvendosi in parola ora rassegnata, ora onirica, ora empatica si fa grido di dolore con cui dire attraverso lo stupore abbacinato di un pathos visionario "i lamenti, la sorpresa, il lutto, l'inerte orrore di vivere". Francesco Roat Mara De paulis, Gilbert. Nascita e morte di un rivoluzionario, prefaz. di Alessandro Galante Garrone, Shakespeare and Company, Firenze 1993, pp. 253, Lit 25.000. Il romanzo, che ha vinto l'edizione 1992 del premio Calvino, in primo luogo documenta una linea di tendenza dei manoscritti che annualmente giungono al premio: la fedeltà alla tradizione del romanzo storico. Il libro della De Paulis fa rivivere la figura di Gilbert Romme, montagnardo dai modi socratici, che s'uccide per non sottostare a una giustizia che riteneva illegittima. Modello dichiarato dell'autrice è il saggio einaudiano (1959) di Alessandro Galante Garrone, ferma restando un'altrettanto esplicita rivendicazione dell'autonomia della letteratura, che ha il suo punto di partenza nella celebre dialettica del possibile de L'uomo senza qualità di Musil, solo parzialmente at- •» tenuata dall'ironia dello stesso Calvino che — ricorda Galante Garrone nella prefazione — si sentiva in soggezione qando "scherzava con la storia". La De Paulis tuttavia non scherza con il suo Gilbert, come Calvino con il Barone: la trattazione è precisa, solo allietata e per così dire alleggerita dalla presenza di ampie parti dialogate e discorsive, che rendono piana e piacevole la lettura, con una particolare accentuazione sentimentale e, quasi, melodrammatica, là dove si discorre degli amori giovanili di Gilbert. Questo romanzo ha chiari riferimenti all'attualità, al crollo delle ideologie, alla fine delle utopie: Gilbert è un simbolo di coerenza, in un'età di transizione. Dalla fortezza isolata sul mar di Bretagna, dove trascorre le ultime ore prima di morire, ci invia un messaggio pieno di implicazioni etico-politiche sui doveri di un rivoluzionario che non vuole scendere a patti con la sua coscienza. Alberto Cavaglion LA SECONDA REPUBBLICA EI SERVI CONTENTI NORBERTO BOBBIO DALLA SOCIETÀ TRASPARENTE AL SUK DELLE NOTIZIE REMO BODEI UN MESE DI IDEE direttore Giancarlo Bosetti In edicola e in libreria a L. 9.000 DONZELLI EDITORE ROMA ^^