L'INDICE ■■dei libri del mese■■ SETTEMBRE 1994 - N. 8, PAG. 12 L'inverno di un patriarca di Paola Lagossi Monika Maron, Via alla Quiete, 6, Bollati Boringhieri, Torino 1994, ed. orig. 1991, trad. dal tedesco di Marina Jarre, pp. 141, Lit 20.000. La prima opera di Monika Maron tradotta in italiano (in realtà è il suo terzo romanzo, dopo Flugasche, 1981 e Die IJberlàuferin, 1986, pubblicati all'ovest, mentre la scrittrice risiedeva ancora nella Ddr) riesce a destare una quantità di interrogativi e di semplici curiosità che non si esauriscono al primo livello di lettura e che rinnovano pertanto l'antico piacere di trovarsi di fronte a un vero romanzo. Un romanzo-inchiesta, condotto come un'indagine fin dalla prima riga ("Beerenbaum fu inumato nel cimitero di Pankow..."), che si costruisce progressivamente, introducendo sempre nel quadro di una rigorosa unità di azione — il funerale di Beerenbaum, appunto — dati, episodi, ricordi dell'io narrante e protagonista, Rosa-lind Polkowski. Chi fosse Beerenbaum e perché Rosalind lo conoscesse lo si viene a sapere subito, mentre vanno delineandosi più precise coordinate spazio-temporali (che la vicenda sia ambientata nel 1985 lo si capirà solo a metà del romanzo): interrotto volontariamente il lavoro di ricercatrice, che l'aveva tenuta occupata quindici anni presso un istituto storico della Ddr in sterili studi sui movimenti proletari in Sassonia e Turingia ("Era così: il campo di ricerca non mi era assegnato, io ero assegnata al campo di ricerca e anche alla stanza"), Rosalind era stata assunta sei mesi prima come dattilografa dall'anziano professore. "Gli era stato affidato il compito di scrivere le sue memorie", ma per una menomazione alla mano destra, sopraggiunta con l'età, egli aveva dovuto cercare una collaborazione e l'aveva trovata in Rosa ("come la nostra Rosa, la nostra Rosa Luxemburg"), incontrata per caso in un caffè. La cerimonia funebre, scandita da intermittenti stacchi narrativi che aprono altrettante parentesi sul passato dei protagonisti e della Germania, non ha nulla di commovente: perché ingessata nel ritualismo ve-terocomunista dalla presenza di tronfi funzionari di partito e perché la si vede con gli occhi di Rosa, ostile a Beerenbaum fin dal primo incontro. "Non penserò più per denaro": questa decisione aveva spinto Rosa a lasciare l'istituto di studi storici e ad accettare l'offerta di Beerenbaum, "che solo tre anni prima era stato un uomo potente a fianco di altri potenti, di cui si diceva che ai tempi suoi — ed erano davvero i suoi tempi — era stato un retore brillante e un inflessibile stalinista". Lei aveva creduto di trovare un'occupazione non indegna e insieme poco impegnativa, che le lasciasse spazio per dedicarsi finalmente a tre progetti inseguiti da tempo: imparare a suonare il pianoforte, affrontare il problema dell'intraducibilità dei recitativi del Don Giovanni di Mozart, leggere Toller. Forse non a caso aveva cominciato a realizzare solo i primi due, perché la risposta agli interrogativi del poeta ("Colui che agisce deve diventare sempre colpevole, sempre e sempre? Oppure, se non deve diventare colpevole, deve perire?") l'aveva vissuta in prima persona, nel rapporto col vecchio professore. Se è vero che, battendo a macchina la biografia di Beerenbaum, Rosa non prostituisce la sua intelligenza, la sente ben presto messa a dura prova nel dover riportare le idiozie della più vieta pedagogia comunista, come: "già da bimbetto sapevo che il cuore sta a sinistra e il nemico a destra", condite del solito lessico fatto di trionfi e vittorie della classe operaia. Lei stessa ne era stata nutrita dal padre, direttore didattico ormai morto, tanto simile al vecchio Beerenbaum nei gesti, nel vestire, nel risentirsi furiosamente alle scomode domande dei giovani ("Se la classe operaia era la classe più progressista, dissi, avrebbe potuto, come unica classe, impedire il fascismo; perché la classe operaia non l'aveva fatto?"). È dunque il conflitto col padre a delinearsi, attraverso Beerenbaum: quello con i padri fondatori, quello con tutti i padri; i pomeriggi dal professore, catalizzati dall'occasionale presenza di uno scrittore di successo, finisco- no col trasformare il consueto scontro generazionale in una feroce resa dei conti all'ultimo sangue. Rosalind procede parallelamente all'impietoso smascheramento di che cos'è la vecchiaia e di che cos'è stato un regime, attraverso un'anamnesi condotta su di sé e sul professore, di cui ha subito intuito il grado di complicità con il sistema staliniano: "L'uomo al mio tavolo lo piazzai a Mosca, forse persino nel famigerato Hotel Lux, ricovero moscovita per i comunisti di tutto il mondo e per molti di loro trappola mortale". La repentina e copiosa epistassi che colpisce Beerenbaum al sentir nominare l'Hotel Lux, dove effettivamente aveva vissuto esule negli anni del nazismo ("Non vuole sapere che ne è stato dei suoi compagni dopo che di notte li hanno trascinati fuori dai loro letti"), non è che il preludio della catastrofe finale: l'ostinata Rosalind gli chiede conto di un episodio più recente, in cui l'implacabile e stolida scure del regime, brandita questa volta direttamente dal professore, si è abbattuta su un amico di lei, il sinologo Karl-Heinz Baron. Ucciso metaforicamente il padre, non sappiamo se Rosalind porti con sé altro bagaglio che la lapidaria considerazione "Il comunismo... non può essere meglio dei comunisti"; se in una delle intermittenze narrative un moto di pietà pare avvolgere la figura del padre morto, il manoscritto della biografia del professore, donatole dal figlio per espresso desiderio del defunto, finirà in un cassonetto o sepolto in uno scaffale: "In nessun caso lo aprirò". Il chiudersi della vicenda però non rimargina affatto la lacerazione aperta dallo sguardo sul passato della Germania e sulla tragicità delle scelte politiche operate dalla generazione dei nostri padri: a conclusione del più serrato scontro verbale con Beerenbaum, Rosalind ha ammesso che, durante il nazismo, anche lei sarebbe diventata comunista, mostrando di aver compreso, forse più del professore, il senso dell'ineluttabilità della storia (e della colpa). Proprio l'emergere di questo nodo problematico, che trascende l'intreccio narrativo, consente al romanzo di non esaurirsi in una piatta requisitoria contro i regimi dei paesi dell'Est, contro le purghe e i gulag di Stalin, contro il comunismo. Rimane da rilevare come lo scontro tra i protagonisti sia costantemente illuminato dal riverbero di molte figure minori, il cui avvicendarsi risulta tutt'altro che un elemento accessorio: Bruno, il marito da cui Rosa vive separata, il colto e raffinato sinologo o la matura insegnante di pianoforte con il suo innamorato sono personaggi di un altro mondo, disordinato e irregolare e dunque libero, come la taverna in cui alcuni di essi si incrociano. Purtroppo la traduzione non aiuta il lettore, che si trova a dover districare la struttura di un periodare talvolta rimasto irrimediabilmente tedesco. Una certa cura redazionale avrebbe potuto con comode note offrire le delucidazioni di cui si sente qui davvero bisogno e che ci si deve cercare da soli: è vero che un romanzo non lo richiede, ma forse proprio questo era l'obiettivo di Monika Maron (figlia di un ministro degli Interni della Germania di Ulbricht, ex funzionario del Comin-tern, i cui delegati alloggiavano appunto all'Hotel Lux): che ci si vada tutti a informare, visto che nessuno ci ha detto... Un maturo di Anna jurek becker, Amanda senza cuore, Feltrinelli, Milano 1994, ed. orig. 1992, trad. dal tedesco di Lidia Castellani, pp. 304, Lit 28.000. "Che oggi io sia considerato uno scrittore tedesco è in fondo dovuto al caso". Questo l'incipit del discorso di Jurek Becker sullo stato della nazione tedesca pronunciato recentemente a Weimar. Ebreo, nato nel 1937 a Lodz, Becker si definisce un superstite della storia, ultimo anello di un'assurda "ca- tena di accidenti": l'occupazione nazista della Polonia e il lager di Sachsenhausen; l'avvento dell'Armata Rossa e l'ostinata, muta determinazione del padre a radicarsi a Berlino Est — lui e il figlio, unici sopravvissuti di quella famiglia bavarese che negli anni trenta era migrata verso est in cerca di fortuna. "Della zona di occupazione sovietica, e più tardi della Ddr, a mio padre interessava solo un fatto: che là comandavano gli antifascisti". È significativo che un riconoscimento così netto dello spirito fondante della vecchia Ddr venga oggi da un autore come Becker, che nel 1978 a quella società ormai "servile" e "ingiusta" voltò le spalle trasferendosi a occidente. Riflettendo sulla propria identità storica lo scrittore rivendica cioè quello sguardo da outsider che caratterizza la sua narrativa, dal primo famoso romanzo del 1969, Jacob il bugiardo, tradotto in tredici lingue (Editori Riuniti, 1976), attraverso la prosa degli anni settanta — ironico controcanto alle trombe ormai lacere del socialismo reale — fino allo straziato romanzo del 1986, Bronsteins Kinder, anamnesi della generazione del padre, incardinata nella memoria ossessiva della violenza nazista. Uscito nel 1992, Amanda senza cuore segna una svolta di genere. Il romanzo, ottimamente tradotto, ha il sa- innamorato Chiarloni pore di una spassosa analisi postuma della Ddr ma è al tempo stesso il diagramma ex negativo di una limpida figura femminile. Tre uomini raccontano in successione di lei — Amanda — in forme che ne rivelano l'intima natura. La rievocazione di Ludwig, il marito, è ruminante e oculata. Giornalista di regime addestrato a "incasellare" fatti e persone della vita — moglie compresa — in un "collettivo" ormai inesistente, Ludwig redige una sorta di memoriale in vista della separazione da Amanda. Affiora una società gretta, pavida anche nel peccato, disseminata di informatori intenti a spiare fin nel letto i cittadini che — come Amanda — non s'inquadrano anima e corpo nella repubblica socialista. Grazie a Fritz, il maturo scrittore che per qualche tempo — siamo ormai negli anni ottanta — occupa il cuore di Amanda, la narrazione si fa più complessa. Perché la storia della sua passione, meticolosamente archiviata su dischetto in attesa di pubblicazione, è andata perduta, forse cancellata ad arte dal piccolo informatico di turno, il figlio di Amanda. Il romanzo procede ora sospinto dalla caparbia volontà di Fritz di rievocare non tanto la vicenda in sé, quanto gli stilemi della sua scrittura che appunto zampillano nel corsivo del testo. E la parte più felice. Becker sa infatti rendere con acutezza — utilizzando il contrappunto tra finzione e memoria — le piccole astuzie di un cuore acidulo ma innamorato, impigliato tra alcova e scrivania, gelosia e solitudine. Ma c'è dell'altro. L'orizzonte si allarga — secondo la traccia autobiografica di Becker — all'indagine sul ruolo della censura negli anni del cielo diviso. Fritz è infatti uno scrittore dissenziente, ecco pertanto affacciarsi l'usuale sequenza Ddr: dalle sforbiciate del censore alle prime pubblicazoini in occidente, dalle sanzioni disciplinari alla richiesta d'espatrio. Ma a differenza di altri autori passati a ovest Becker non palesa rancore, semmai un ironico distacco dettato da quello sguardo super partes che gli consente di segnalare al lettore, oltre alle magagne, anche i pregi del progetto politico originario. Con Stanislaus, giornalista occidentale, siamo al terzo uomo. Il suo diario narra del desiderio di convolare a nozze con Amanda chiedendone il trasferimento in occidente. Datato fino al gennaio 1989, il testo traccia il declino della Ddr, qui felicemente disciolto nel bonario registro di una fiaba con principe azzurro. Perché Stanislaus, con quel suo nome di ascendenza polacca, conosce solo le ragioni del cuore, e ignora quelle della politica, e sarebbe disposto persino a fare la spia pur di portarsi a casa Amanda. La riunificazione della Germania coincide dunque con il lieto fine di una storia d'amore: gli ultimi appunti di Stanislaus si fondono con la voce di Amanda che in partenza per Amburgo, tra casse e bauli, bisbiglia al figlio la tranquillizzante fiaba infantile di un occidente fatto di giardini e piscine, vacanze e banane... Già, ma allora chi è Amanda e perché quell'ossimoro inscritto nel titolo? Secondo Greg Baer Amanda riprende, precisandoli, i tratti di un altro personaggio di Becker, Wanda Brink, forte figura di donna che compare in una sceneggiatura cinematografica del 1977, Das Versteck (Il nascondiglio). Come Wanda anche Amanda sembra cercare la sua strada in un mondo che cambia. Lo fa senza chiasso ma con estrema coerenza e — a differenza di altri protagonisti di Becker — non è disposta a scivolare ai margini della società, nel cpno d'ombra del dissenso interiore. Né si lascia commuovere da D> Frammentarietà come destino di Guido Massino Franz Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi (1917-1924), introd. di Gustaw Herling, Feltrinelli, Milano 1994, trad. dal tedesco e cura di Andreina Lavagetto, pp. 415; Lit 16.000. Il volume presenta per la prima volta in veste economica i frammenti e gli schizzi narrativi che vanno dall'insorgere della malattia (agosto 1917) ai mesi che precedono la morte dello scrittore praghese (giugno 1924). Queste pagine furono pubblicate postume da Max Brod in varie riprese secondo un criterio cronologico e talvolta tematico, non senza omissioni e sviste. Il presente volume segue invece l'edizione critica tedesca (1992): i testi sono riprodotti nell'ordine esatto in cui si trovano nei singoli quaderni di Kafka, indipendentemente dall'epoca della loro stesura. Il lettore può calarsi così senza mediazione alcuna nel vortice della creatività kafkiana, a cominciare dalla splendida serie di pensieri dell'autunno 1917, edita da Brod nel terzo e quarto quaderno in ottavo, riflessione estrema sulle prime e ultime cose della vita. Ritroviamo nella loro originaria collocazione prose brevi e folgoranti pubblicate precedentemente con i racconti (Il silenzio delle sirene, che dà il titolo al volume, Rinuncia!, Prometeo,),' e poi un'infinità di frammenti narrativi, schizzi, studi interrotti, percorsi che attraversano zone oscure, talvolta impenetrabili, della "sognante vita interiore" kafkiana. Un universo, quello dei frammenti, che è anche testimonianza di uno dei volti più dolorosi del rapporto che lega Kafka alla scrittura: l'insorgere improvviso di ostacoli insormontabili, di barriere che rendono impossibile il compimento di un'opera unitaria: la frammentarietà come destino. Sono i momenti in cui l'ebbrezza della scrittura che innalza il mondo "nel vero e nell'immutabile" si capovolge nel sentimento di una insormontabile impasse, artistica ed esistenziale; nel dubbio stesso di poter giungere alla verità attraverso le parole. Ora è chiaro che lo scacco della parola, vissuto da Kafka così radicalmente, è anche il presupposto della grandezza della sua opera, ne è per così dire l'altro verso. I frammenti non raccontano in questo senso nulla che non sia anche nelle opere maggiori; costituiscono piuttosto il materiale minuto di una medesima intensissima esperienza esistenziale. Tuttavia il discorso è qui più cifrato e fratto, spesso richiede per essere colto pienatnente la conoscenza della biografia e dell'opera dell'autore. L'importanza dell'edizione critica tedesca sta proprio nell'aver evidenziato ogni minima relazione intertestuale chiarendo in modo definitivo alcuni passaggi oscuri (ma perché si è allora deciso di espungere nella traduzione testi come la Lettera al padre o Un digiunatore che fanno parte del manoscritto?). Sennonché anche il testo critico non basta; corregge quello di Brod ma ne presuppone la conoscenza. Auspicabile ci pare pertanto l'integrazione del presente volume con la pubblicazione delle varianti e dei passi soppressi, e, soprattutto, di un più ampio apparato di note. Potrebbe rivelarsi il tassello vincente di un'iniziativa meritoria e per più versi indispensabile.