SETTEMBRE 1994 - N. 8, PAG. 8 Narratori italiani Anche gli amici muoiono di Rocco Carbone <1 totale, nell'immediato, di una vera opposizione e, anzi, alla diffusa indifferenza per l'ennesima svolta illiberale del fascismo e per la sorte dei perseguitati. Ma l'inasprimento della politica antiebraica del regime non si arrestò con i provvedimenti del novembre 1938; proseguì anche dopo, in un contesto destinato via via a mutare assai rapidamente. E se completare e rendere coerente la normativa persecutoria, ma soprattutto farla effettivamente rispettare, fu senza dubbio altra cosa dal delineare i tratti iniziali della politica discriminatoria e dal darle un primo impianto operativo — entrarono infatti in gioco a quel punto il comportamento delle istituzioni ai loro diversi livelli, i cambiamenti dello "spirito pubblico" in tempo di guerra, l'evoluzione del quadro nazionale e internazionale e altro ancora — conta tuttavia saper cogliere dall'inizio alla fine la tendenza Fta io prevalente. In una tale prospettiva è senz'altro significativo che sin dalla breve e rapida marcia di avvicinamento ai provvedimenti razzisti del novembre '38, al di là degli inevitabili riaggiustamenti, si possa rintracciare un orientamento sostanzialmente univoco e coerente. Tale dato serve quanto meno a chiarire che una svolta come quella antiebraica, lungi dall'essere stata una scelta estemporanea, eterodiretta o del tutto estranea alla realtà italiana, poteva contare su presupposti precisi, concreti e ben radicati nel "pensiero operativo" del duce così come nel contesto più generale del fascismo italiano, nonché — alla luce di quanto sarebbe accaduto poi — su solidi appigli nelle istituzioni e nella società. Oreste Del Buono, Amici, amici degli amici, maestri..., Baldini & Castoldi, Milano 1994, pp. 284, Lit 28.000. Fa una certa impressione vedere raccolti in volume gli elzeviri con i quali Oreste Del Buono, da qualche tempo a questa parte, sta dando lustro al "Tuttolibri" de "La Stampa". Non che fosse difficile da immaginare che l'autore pensasse al libro. No, non è questo il punto. Il fatto è che quegli scritti, una volta riuniti, messi uno dopo l'altro, acquistano un senso che li trascende, diventando ancora più definitivi. Il narratore, con la sua disincantata pacatezza, ci fa conoscere molta gente, e di questa gente ci dice moltissime cose, alcune divertenti, altre amare, tutte necessarie al suo scopo, che è quello di ricordare. Ma proprio mentre ci siamo abituati a vederle muovere, queste persone, a sentirle parlare, quando pensiamo che, a un certo momento, potrebbero forse anche suonare al citofono di casa nostra e sedersi sul divano del nostro soggiorno, proprio allora, e con la maggiore definizione possibile, Del Buono le fa morire, una dopo l'altra, sotto i nostri occhi. Come se la vita degli "amici" e dei "maestri" che vuole restituire a una, per quanto precaria (non si fa illusioni, su questo, l'autore), memoria futura, acquistasse la sua verità, quella da tramandare, nel momento in cui essa finisce. Noi vorremmo fare qualcosa, impedire, ad esempio, che, nel racconto di Del Buono, Luciano Bianciardi continui a bere e così a distruggersi, o vorremmo fermare la mano di Tommaso Besozzi quando costruisce il rudimentale ordigno che, "all'ora in cui si prende il caffellatte", salta in aria assieme a lui. La morte delle persone conosciute dal narratore restituisce a es- se, in qualche modo, la loro realtà anagrafica, fatta di date, libri scritti, giornali e periodici portati avanti in anni più o meno difficili, articoli e film più o meno memorabili, altro ancora. E il refrain che anima, con un tono immediatamente riconoscibile, il libro è uno solo: "Sono tutti morti". C'è una pagina in cui Del Buono, riflettendo su alcuni suoi amici ora scomparsi, parla a proposito di se stesso di "illogica sopravvivenza". Non si tratta soltanto di una clausola retorica, ma di un'affermazione che fa riflettere, non tanto perché può essere letta come il frutto dell'amarezza di chi, a un certo punto del suo cammino, scopre di essere rimasto sempre più solo, quanto perché quella solitudine sembra refrattaria al presente. Come se le persone di cui il narratore parla, e che hanno preso parte consistente, in un modo o in un altro, alla storia della cultura del nostro paese per una certa parte di questo secolo, fossero morte un'altra volta, in un presente che a Del Buono non piace affatto. In un tempo, insomma, in cui i suoi amici, forse, non sarebbero stati contenti di vivere. Ma i numerosi ritratti che compongono il libro formano, nello stesso tempo, una storia più grande, che va al di là di coloro ai quali l'autore dedica, di pagina in pagina, l'affetto della propria testimonianza. Si tratta della storia della "nostra industria editoriale", di quell'industria che l'autore ha conosciuto per averci lavorato per decenni, e con lui gli amici, e i maestri, dei quali oggi sente la necessità di testimoniare. Si è trattato di un mondo con le sue leggi, i suoi intrighi, le sue ingiustizie, ma è stato pur sempre quel mondo nel quale ha lavorato una buona parte di quelli che, come scrive Del Buono, "hanno avuto un'influenza piccola o grande sulla formazione del popolo italiano". È difficile, oltre che mortificante, tentare di riassumere le quasi trecento pagine di questo libro. Di esso si può sottolineare la cura per la precisione con la quale viene riferito questo o quell'episodio della vita di coloro che lo animano, presenze, come dicevo prima, vive e morte nello stesso tempo. Da ciò discende, mi sembra, l'atteggiamento dolente del narratore, quel particolare disincanto di chi sa di essere testimone di una stagione già passata. Scorrendo queste pagine, il lettore troverà alcune immagini difficilmente dimenticabili, delle istantanee rapite con il flash della memoria e dell'affetto allo scorrere del tempo. Come quella di Beppe Viola sotto la pioggia battente, a Milano ("un'acqua della Madonnina") in maniche di camicia, che confessa, a se stesso prima che al suo interlocutore: "Si soffre, ma è bello". O di Giuseppe Marotta, dei suoi rapporti con Angelo Rizzoli, il Commenda per definizione, dei consigli su come comportarsi durante i rinfreschi, in tempi in cui la magrezza era una necessità, non un obbligo ("Il primo a insegnarmi che, partecipando a un cocktail o a un'altra festa comandata, era sempre meglio foderarsi le tasche di carta oleata per poter fare incetta impunemente di salatini e pasticcini"). O ancora l'immagine di Vittorini alle prese con i progetti editoriali che ben conosciamo, e nello stesso tempo con la riscrittura tramite imposture (è termine di Del Buono) della propria vita. Come un grande scrittore, insomma, possa essere anche capace di azioni meno grandi. Ma il disincanto del narratore, a cui prima accennavo, contiene in sé una convinzione, neanche tanto nascosta: che quelle persone da lui conosciute, quei giornalisti, scrittori, editori, registi non hanno lasciato eredi, e che la loro esperienza sia terminata con la loro stessa vita. È per questo che il libro in cui Del Buono compie, per sua ammissione, il pietoso e doveroso gesto di ridare la dignità della memoria ai molti dimenticati — spesso, ai suoi occhi, i "migliori" — non è soltanto una rassegna di ricordi proiettata nel passato, ricordi fissati grazie alla nitidezza dello sguardo e alla capacità di cogliere con poche frasi il senso di una passione, o di un dolore: quelle passioni e quei dolori che hanno accompagnato la vita degli amici, e dei maestri. Poiché ogni ricordo, ogni ritratto, tende a isolare una qualità, un precetto, un insegnamento che trascende anche quelle persone, e che viene fuori attraverso l'amarezza di chi si considera un sopravvissuto. Mi sembra questo il modo migliore di leggere quelle notazioni fulminee, gettate là con accorta dissimulazione, con le quali viene definita una vita intera. Vittorio Sereni che "raffigura... l'ultima occasione di sostenibile compromesso con la coscienza"; Elio Vittorini che dice al giovane Del Buono, a proposito di una recensione da fare: "Attento a non esagerare. Si può non andare d'accordo, si può essere su posizioni diverse. Ma la letteratura è la letteratura"; Alberto Mondadori pronto a esclamare: "Sono in perdita e non me ne importa niente". O Pasquale Prunas, sul quale vengono spese queste parole: "... chi è abituato a dire la verità, ed è convinto del proprio lavoro, è destinato a essere uno zingaro quando non addirittura un pregiudicato". E poi ancora Buzzati, Don Milani, Piovene, tanti altri. Chi scrive non ha potuto conoscere, per ragioni anagrafiche, le persone a cui Del Buono ha dedicato il suo ultimo lavoro. Di molte di esse ha letto le opere, su alcune ha letto pagine di altri, di altre ancora non ne sapeva nulla. E tuttavia, mi è diffìcile pensare a questa galleria di ritratti soltanto come a un libro di ricordi. Nel tempo sopravvivono, oltre alle persone, quei valori che ne hanno informato la vita: l'attenzione, l'impegno, la coerenza, che per servire a qualcosa deve sempre du bitare di se stessa, o il disincanto, il comprendere che può non bastare quell'impegno, e quella serietà, a decidere della felicità di un uomo. Il fatto che ci si possa perdere per strada, e non averne colpa. Ma sopravvive anche ciò che a tali esempi si oppose: la volgarità imperante, l'arroganza dei più, la conseguente mortificazione di chi volle, in un certo periodo della storia della nostra nazione, continuare a pensare (e anche a sbagliare) con la propria testa, la solitudine di chi credette, semplicemente, nei valori della cultura, della letteratura, della parola scritta e tramandata. Valori minoritari. Ma esser minoranza, per chi fa un certo mestiere, è una dote necessaria. Trentatre risposte possibili NOVITÀ F.D.E. Schleiermacher Introduzione a Platone Appendice di Wilhelm Dilthey a cura di Giuliano Sansonetti pp. 128, L. 12.000 Immanuel Kant Il conflitto delle facoltà a cura di Domenico Venturelli pp. 216, L. 20.000 Pietro Gibellini La parabola di Renzo e Lucia Un 'idea dei «Promessi sposi» pp. 168, 6 ili. di Luciano Cottini L. 18.000 MORCELLIANA yVia G. Rosa 71 - Brescia di Massimo Onofri Sandra Petrignani, Vecchi, Theoria, Roma-Napoli 1994, pp. 136, Lit 14.000. Un architetto affetto dal morbo di Parkinson, ormai straniero alla vita, un'attivissima "presidente del Filo d'argento" non fiaccata dalla leucemia, un nonno che vorrebbe al più presto sbarazzarsi di sé, ospite ingrato in casa della figlia, un pianista cieco che pare conoscere esclusivamente l'acre ossessione del sesso, un'esile e mesta ricamatrice rimasta vergine, uno psichiatra che conobbe la paura dei condannati a morte e che aspira, ora, alla saggezza di "un'oca selvaggia": sono, questi, alcuni dei personaggi che ci vengono incontro da Vecchi, il commovente e asciutto libro che Sandra Petrignani ha pubblicato nella collana "Geografie" dell'editore Theoria. Diciamolo subito: non ci sembra per nulla casuale che l'autrice di un non lontano Catalogo dei giocattoli abbia voluto consegnarci oggi un lavoro interamente dedicato alla vecchiaia, passando con disinvoltura dalle larve infantili della casa di Barbie ai fantasmi crepuscolari degli ospizi e dei centri per gli anziani. Si lasci tentare, infatti, dall'alfa o dall'omega della vita, la Petrignani pare sempre intenzionata a cercare un confronto serrato con le esperienze liminari dell'esistenza, senza oltrepassare mai, però, un orizzonte di ineludibile e prosaica quotidianità: quasi volesse azzardare, ogni volta, un passo capace di spingersi ancora più in là nella solitudine, proprio dove il cuore dell'uomo si rivela più nudo e vero. Il lettore lo avrà ormai capito da sé: questi trentatre racconti svelti e scabri non hanno niente a che vedere con le tante inchieste giornalistiche, con le molte ricognizioni sociologiche che tengono banco, quasi a surrogare la letteratura, nel nostro mondo librario. Qui, infatti, si accampa sempre un personaggio-narratore: sia esso uno dei tanti anziani, l'autrice stessa, o un suo curioso alter ego, un'infermiera diplomata allegra e dai modi spicci, "una di quelle donne che restano ragazze tutta la vita". Ma la polifonia di voci, la molteplicità delle storie, la diversità delle situazioni non deve ingannare: i trentatre racconti non sono altro che trentatre risposte possibili, condotte quasi con matematica consequenzialità, a un unico e semplice interrogativo: "cosa succede all'uomo messo di fronte a se stesso quando non ha altro che se stesso cui appigliarsi?". La trasformazione del vecchio in personaggio-uomo è il vero e felice escamotage del libro, quello che consente alla Petrignani di colmare, con un colpo di penna, l'abisso che avrebbe potuto separare lei, giovane, dai tanti anziani che, pur stremati, entrano ed escono da queste pagine con grande leggerezza. Un escamotage, aggiungiamo, che le permette di salvare la pietà senza rinunciare all'impassibilità, in una scrittura la quale, priva di remore ideologiche e morali, di impacci sentimentali, va dritta al bersaglio, non recede di fronte all'orrore del corpo in disfacimento, non esorcizza l'angoscia della morte e del nulla, che quella morte annuncia, restituendoci uno dei più autentici paesaggi esistenziali di questi ultimi tempi. Ci si consenta un'ultima considerazione: che la Petrignani mirasse, con ostinazione, a presentarci personaggi di sostanza, per così dire, ontologica, più che psicologica, l'avevamo capito sin dalla raccolta Poche storie. Ma mai, come in questo Vecchi, avevamo potuto registrare, affidato al lettore, un vero e proprio campionario trascendentale dei destini umani possibili. E ce n'è davvero per tutti.