Idei libri del meseI SETTEMBRE 1994 - N. 8, PAG. 21/V Si possono ancora scrivere oggi, nell'era della post o iper-modernità libri, memorie, diari di viaggio? Sappiamo che se ne scrivono, ovviamente. Il viaggiatore sedentario di Luigi Malerba (Rizzoli, Milano 1993, pp. 247, Lit 24.000) e Passaggi Paesaggi di Mario Fortunato (Theoria, Milano 1993, Lit 14.000) ne sono una delle tante testimonianze, senza scomodare Bruce Chatwin o Paul Theroux. Proviamo allora a riformulare la domanda: perché, che senso ha scriverne, quale mercato, quale ricezione possono avere? Passiamo poi a un secondo gruppo di testi: La Terra dei Rajah. Passaggi in India dal seicento al novecento, a cura di Gianni Guadalupi e Margherita Asso (Anabasi, Milano 1993, pp. 271, Lit 48.000), silloge di bellissime, stupefatte testimonianze di viaggiatori europei in India, o il Viaggio a Timbuctu di René Caillié (Cierre, Verona 1993, pp. 325, Lit 28.000), dove siamo nell'ambito dell'esplorazione più che del viaggio, per non parlare del monaco certosino inglese Andrew Borde che decide negli anni burrascosi e pericolosi del regno di Enrico Vili di lasciare l'Inghilterra per intraprendere il giro di tutta la cristianità di cui ci lascerà testimonianza in The Introduction of Knowledge presentata ora al lettore italiano con il titolo Gli itinerari d Europa, a cura di Maria Palermo Concolato (Liguori, Napoli 1992, pp. XCIII-261, Lit 38.000). E a questo punto poniamo ancora un'altra domanda: che rapporto c'è tra questi libri e i due citati in apertura? La prima discriminante che salta agli occhi mi sembra sia un'ansia peculiare dei viaggiatori contemporanei, e cioè il febbrile desiderio di penetrare la realtà ultima, di impossessarsi dell'immagine vera, autentica, definitiva dei luoghi visitati. Viaggiare significa scavare, eliminare, farsi strada attraverso le complesse stratificazioni che i resoconti di altri viaggiatori, i reportage, i documentari televisivi e i film hanno sedimentato attorno ai luoghi trasformandoli in miti e metafore non ulteriormente indagabili. C'è una domanda che Mario Fortunato torna più volte a formulare durante la sua iper-letteraria visita a una Tangeri in cui riecheggiano i nomi di Truman Capote, Tennessee Williams, Gore Vidal, Alien Ginsberg, William Borroughs: "Che cosa ti aspetti da Tangeri?" La risposta non può che essere deludente: "Sono spaesato, confuso come mi trovassi non nel cuore di una città mediterranea, proverbialmente seduttiva e antica, ma in qualche non-luogo della modernità". Ancora più inafferrabile, più sfuggente per chi voglia trovarvi un senso e incapsularla in una definizione, è New York: "Non voglio esagerare: ma credo davvero che il mito di questa città sia ormai un mito troppo consumato, eroso. Tu non vedi più la realtà: vedi la continua rielaborazione di quel mito". E ancora: "Non c'era nulla, nella New York che mi sfilava davanti, che non avessi già saputo e intuito e sentito. La città tutta era una sorta di fondale infinito, un album di memorie altrui continuamente rielaborato dall'arte o dai sistemi di comunicazione di questo secolo. E così di colpo ho avuto anch'io voglia di tornare a dormire". ni, sofferenze. Libri di esploratori più che viaggiatori, in cui le minute osservazioni relative ai percorsi, ai cibi, alle malattie, alle abitudini delle tribù incontrate erano giustificate dalla consapevolezza di esplorare regioni che nessun altro europeo aveva visto prima e dal sapere che il racconto delle proprie traversie avrebbe indubbiamente costituito una preziosa guida per quanti sarebbero venuti dopo. È vero, come scrive Eugenio Turri nell'introduzione, che Caillié, modesto figlio della provincia francese, si lascia affascinare da un mito prevalentemente borghese, l'esplorazione come strumento di penetrazione coloniale, ma lo stesso Turri definisce la "follia" di Caillié: "Ed ecco che il ragazzo Caillié diventa preda, letteralmente, dei miti del suo tempo. Ha modo di leggere Robinson Crusoe, di sognare le avventure di tanti viaggiatori. Si forma una cultura tutta rivolta in questo senso, unica, ristretta, ossessiva, pienamente funzionale alle sue aspirazioni di viaggiare ed esplorare il mondo. Poi, a un certo momento, è toccato dal mistero di Timbuctu e questo diventa un incantesimo da cui non saprà più liberarsi. Andare a Timbuctu diventa la sua grande aspirazione, il suo grande sogno, la sua fissazione, torbida, demenziale: Timbuctu la mitica, leggendaria città sahariana, la 'regina delle sabbie', dove nessun europeo è mai arrivato". Sono dunque la disposizione d'animo del viaggiatore, lo stato di trepida attesa, le condizioni — difficili, incerte, rischiose — del viaggio, il privilegio di giungere per primo a scoprire territori e popolazioni di cui in Europa si sa ancora poco, a differenziare questi resoconti da quelli attuali? Il libro di Malerba è molto diverso da Passaggi Paesaggi, che descrive le scorribande notturne attraverso la Tangeri dei locali "letterari", la movida madrilena, la New York delle discoteche e dei locali peccaminosi (il sottotitolo è Guida per amatori della notte). Il genere a cui si può ricondurre II viaggiatore sedentario è forse il reportage più che la letteratura di viaggio, ma anche qui troviamo l'ansiosa ambizione di conquistare la "dimensione Cina", perché la Cina, il Giappone e le aree economicamente emergenti dell'Estremo Oriente "appartengono a un Altrove che non si può ignorare se non vogliamo restare ancorati a una ideologia ottusamente eurocentrica, dimenticando l'altra metà del mondo". Nei due capitoli dedicati alla Cina lo sforzo di penetrazione nell'indecifrabile sistema politico, economico e culturale cinese non avviene tuttavia attraverso l'esperienza del viaggio, ma è frutto più che altro di intense letture della letteratura della e sulla Cina. Senza contare che su molti aspetti l'autore ha opinioni rigidamente prefissate che l'osservazione sul campo deve solo inverare. L'aggettivo del titolo potrebbe quindi avere un'altra, più letterale interpretazione di quella fornita dall'autore nell'introduzione, potrebbe alludere cioè al fatto che libri come questo potrebbero essere scritti restandosene comodamente seduti nella propria biblioteca. Non solo: è probabile che oggi i libri di viaggio si possano scrivere solo così, non nascondendo ma esplicitando le conoscenze preesistenti al viaggio, facendone in qualche modo il materiale principale del viaggio stesso. Libri come Viaggio a Timbuctu, con osservazioni meticolose sui paesaggi, popoli e costumi, con frequenti accenni alla propria esperienza personale, sono davvero inimmaginabili oggi — salvo rare eccezioni — soprattutto perché è impossibile far finta che mille altri non abbiano visto e descritto i luoghi che si sta visitando e che chiunque, ormai, può raggiungere con un inclusive tour a portata di molti. A questo si riferivano gli interrogativi sollevati all'inizio, perché al contrario è facile capire il fascino di libri come Viaggio a Timbuctu, che contiene tutti gli elementi che ci facevano sognare da ragazzi: pericoli, camuffamenti, privazio- temmo in strada con un tempo piuttosto freddo, cupo e nebbioso. Ci dirigemmo a est, camminando in fretta e osservando il massimo silenzio, nel timore di essere sentiti dai ladri che sicuramente ci avrebbero rapinati. Ci addentrammo nei boschi tra un'erba così alta da oltrepassare le nostre teste". E ancora: "Eravamo giunti al 10 novembre, la piaga del mio piede si era quasi rimarginata, e io speravo di poter profittare della prima occasione per mettermi in viaggio verso Djenné: ma purtroppo, proprio in quei giorni, dei violenti dolori alla mascella mi'avvertirono che ero stato colpito dallo scorbuto, la terribile malattia che dovetti subire con tutto il suo orrore". Vi sono nel libro brani molto più mossi e drammatici di questi, ma quello che qui premeva evidenziare era la presenza di uno dei più elementari meccanismi narrativi, spesso assente nell'odierna letteratura di viaggio: la puntuale scansione temporale, il rincorrersi dei giorni e fin delle ore man mano che ci si avvicina a Timbuctu. Lo stesso avviene in molti brani riportati ne La Terra dei Rajah: "Aureng-Zeb prese la risoluzione di gire a Lahor, e di là a Cachemira, provincia settentrionale del Mogol, per iscansar gli eccessivi calori della state, e partì a' 6 dicembre 1664 all'ora che i suoi astrologi avevano scelto per la più fausta"; "Il 29 novembre 1829 questa vecchia donna, che aveva allora sessantacinque anni, mescolò qui le sue ceneri a quelle del marito, che era stato bruciato quattro giorni prima"; "Haiderabat, 14 gennaio. In due giorni di corsa vertiginosa la Central India Railway mi ha portato dalla costa verdeggiante alle terre riarse, dall'India Indù all'India Maomettana. Tutto è mutato. Non più la freschezza dei palmizi e delle felci arboree, ma i cacti spettrali, le agavi dall'immenso fiore centenario, le euforbie a candelabro che sembravano reggere sui fusti altissimi e smilzi la vòlta sanguigna del cielo". Confesso che quest'ultima ridondante serie di citazioni ha lo scopo non solo di mostrare la presenza di una precisa scansione temporale ma anche dare di un'idea della suggestività che aleggia in queste pagine (con bellissime illustrazioni a colori e in bianco e nero) che riportano gli sguardi stupefatti di molti viaggiatori europei (da Francois Bernier a Pierre Loti, da Guido Gozzano ad Aldous Huxley) davanti agli spettacoli grandiosi e sconcertanti offerti dall'India. Anche. Ma quello che sembra essersi rarefatto nell'odierna letteratura di viaggio è lo spazio della descrizione e della narrazione, a tutto vantaggio dell'interpretazione. E questo, paradossalmente, anche quando l'autore è un narratore. Come nel caso di Fortunato in cui i luoghi — Tangeri e New York soprattutto, un po' meno Madrid e Berlino — hanno il carattere "astratto e proiettivo" che deriva loro dal fatto di essere diventati luoghi simbolici: tale condizione rende non tanto difficile, quanto inutile cercare la "vera" New York o Inautentica" India. Perché anche quelle dei clichés sono la vera New York o l'autentica India, e il viaggio diventa allora un viaggio spesso deludente, talvolta disperante, comunque un'avventura prevalentemente intellettuale tra gli infiniti miti che questi cult-places generano incessantemente, relegando a un ruolo marginale l'osservazione di prima mano, la descrizione sul campo, l'esperienza personale. Viaggio intellettuale, quindi, in cui si riducono, gli spazi descrittivi e narrativi. Se si apre a caso Viaggio a Timbuctu si trovarlo brani di questo genere: "Il 14 giugno, alle sette del mattino, la carovana si mise in cammino per dirigersi verso sud-sud-est". Oppure: "Circa all'una e mezzo ci met- Del tutto diverso, squisitamente libresco, è il viaggio che compie il lettore di Gli itinerari d'Europa. Come scrive la curatrice, "anche se non sapessimo che Borde fece realmente numerosi viaggi in Europa, vi sono affermazioni e descrizioni negli Itinerari che rivelano una rielaborazione di dati inediti, che non possono quindi in alcun modo essere ritenuti di seconda mano". E sappiamo anche, come scrive N. Ohler che "manuali" come questo di Borde "furono molto usati e prestati, vennero accartocciati dal vento e dalle intemperie, finché andarono persi o furono dimenticati. Probabilmente esistettero carte geografiche o manuali di conversazione migliori di quello che sono sopravvissuti attraverso i secoli nelle biblioteche e negli archivi". Tuttavia, il piacere che il lettore moderno prova sfogliando questo libro è più legato al paratesto (la buona introduzione e le ghiotte note della Concolato) che allo snodarsi del viaggio di Borde attraverso "the cyrcuyte of Christendome", la cui narrazione è codificata in un'ingenua struttura spesso tripartita dove a un rappresentante della nazione prescelta viene affidata una breve presentazione in rozzi distici rimati, seguita da un brano in prosa in cui l'autore parla del paesaggio, delle risorse, dei costumi e della moneta e per concludere vi è un glossario di frasi utili al viaggiatore, un vero e proprio manuale di conversazione. In realtà si rimane affascinati da altro, dal continuo rimando alla storia e alla cultura del medioevo, dai modelli cui l'autore più o meno infedelmente si ispira, dai resoconti di viaggi in Terrasanta ai pellegrinaggi presso vari santuari, soprattutto presso quello di San Giacomo di Compostella, dal Prologo dei Canterbury Tales, agli Interludes e alle Moralities (in particolare Magnificence di John Skelton), fino ai Viaggi di John Mandeville. Ed è soprattutto attraverso le note della curatrice, con i suoi dotti riferimenti storici, linguistici, bibliografici, che si possono ripercorrere alcuni aspetti fondamentali del medioevo, ancora vivi nel testo di Borde: soprattutto se, accogliendo i suggerimenti della Concolato, si vanno a leggere o a rileggere testi come I viaggi nel Medio Evo di N. Ohler (Garzanti, 1988), La nascita del Purgatorio di Le Goff (Einaudi, 1982) o ancora Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo di A. Graf (Mondadori, 1984).