MAGGIO 1994 - N. 5, PAG. 10 Narratori italiani Ripete Tabucchi di Vittorio Coletti Un giornalista pentito di Alberto Papuzzi Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 207, Lit 27.000. Il dottor Pereira è un giornalista di Lisbona. Dirige la pagina culturale di un modesto giornale di regime nel Portogallo salazarista della fine degli anni trenta. Della realtà non gli inte- ressa più nulla; dialoga col ritratto del- la moglie moria; scrive o pensa di scri- vere necrologi di grandi autori; tradu- ce testi altrui. Ma, un giorno, assume un collaboratore, Monteiro Rossi, un bizzarro giovane che, anche per la sug- gestione di Marta, la sua ragazza, fa politica clandestina e attiva tra gli anti- fascisti. Poco dopo, conosce il dottor Cardoso, un medico che vuole fuggire dal Portogallo asfissiato e mortificato dalla dittatura. La realtà rientra cosi nella vita del placido e disilluso Pereira e lui se ne lascia progressiva- mente, pacificamente coinvolgere, fino a solidarizzare con gli amici antisalaza- risti e a dare ospitalità in casa propria a Monteiro Rossi braccato dalla poli- zia segreta. E anche se non riesce a proteggere il suo giovane amico, tosto scoperto e ucciso a manganellate, Pereira lo vendicherà, denunciandone apertamente l'assassinio in un articolo fatto uscire sul giornale, con una beffa al regime del paese, da cui se ne andrà senza rimpianti. In questo romanzo salutiamo il ri- torno, ad opera di uno dei più grandi tra i narratori contemporanei, di una tematica, se si può ancora usare la pa- rola, più impegnata, meno letteraria e raffinata forse, ma anche più diretta, evidente e, in fin dei conti, più impor- tante di quella da ultimo presente nei libri dello stesso Tabucchi e di tanti al- tri autori di questi anni. Il filtro del tempo, l'ambientazione anni trenta, i precisi e retrodatati contorni cronolo- gici del racconto non ne impediscono infatti una lettura anche attuale o, per 10 meno, lasciano intatto il fascino che i grandi motivi della politica, della li- bertà, della dignità esercitano, posso- no ancora esercitare in un bel roman- zo. Peccato che a questa svolta verso la sostanza delle cose non faccia riscon- tro pieno e completo una parallela svolta nella scrittura, pur tanto diversa da quella abituale all'ultimo Tabucchi, ma ancora, temo, tentata di strizzare l'occhio agli addetti ai lavori della for- ma, a linguisti e narratologi, manipola- tori vari del genere romanzo. Lo rivela 11 titolo, Sostiene Pereira, che, ripetuto fino all'ossessione in tutto il libro, è anche il segno linguistico dominante della narrazione. È, o dovrebbe essere. Se un testo si svolge a partire da un: "tizio sostiene, afferma ecc.", infatti, occorre anche che esso, poi, sia orien- tato a svolgere tutto il tasso di ipoteti- cità che c'è in un fatto "sostenuto" e che quindi lo distanzi e discuta con al- tre ipotesi, lo interroghi con domande o, al limite, lo neghi clamorosamente. E, all'inizio, pare proprio che le cose stiano così. Il narratore-autore enya in dialogo col racconto del narratore- personaggio e avanza ipotesi, supposi- zioni, interloquisce: "Pare che Pereira stesse in redazione... Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo. Sarà per- ché suo padre..., sarà perché sua mo- glie..., sarà perché lui... ma il fatto è che..." si legge nei primi capitoli, quando il testo declina volentieri verso la subordinazione richiesta dal verbum opinandi, raddrizzata qua e là da affer- mazioni di cui il personaggio conserva tutta la responsabilità: "Sostiene Pereira che da principio si mise a leg- gere distrattamente l'articolo... Perché lo fece? Questo Pereira non è in grado di dirlo. Forse, perché quella rivista..., forse perché quel giorno..., o forse perché in quel momento... ma il fatto è che...". Poi, però, questo valore reale, non opzionale, del "sostiene Pereira" si perde o, perlomeno, il lettore lo smarrisce. La narrazione prende a svolgersi per frasi principali e passati remoti che non suggeriscono neppure alla lontana-il dubbio del congiuntivo, la possibilità del condizionale, l'opina- bilità dell'evento; si colloca in una net- ta, distaccata identità, allontanandosi, con la precisione ineluttabile dell'ac- caduto, dall'attualità, partecipe e an- cora sgomenta, del testimone che rivi- ve e "sostiene". Infine, il "[Pereira] sostiene" diventa un puro inciso ("Poi aprì la porta, sostiene"; "Pereira entrò in un caffè, sostiene, e ordinò un'ac- quavite") innocuo, neutro, senza ri- flessi formali nella disposizione del te- sto o della sua lingua; un inciampo che si potrebbe benissimo togliere senza che nulla venga a mancare nel libro. Perché Tabucchi, scrittore sorvegliato come pochi, abbia giocato con questo marchingegno (esibito al punto da di- ventare il titolo) senza poi, come avrebbe saputo fare benissimo (lo ha fatto benissimo in altre opere), dispor- re un'adeguata, conseguente strategia testuale, non so spiegarmi. Né riesco a convincermi che il verbo eponimo vo- lesse essere solo un tic linguistico, una figura della ripetizione come il "beh, pazienza" che il protagonista dice ogni volta che parla col ritratto della moglie o le molte limonate che beve durante il giorno; e non credo che il progressivo passaggio del valore di "sostiene" da quello dell'ipoteticità a quello della certezza, che, snaturandolo, lo assimila ai più diretti e tradizionali verbi e mo- di narrativi, sia figura di una fiducia progressivamente accordata dal ro- manziere al narratore personaggio. A ogni modo, il lettore non può fare a meno di interrogarsi su questo presen- te fasciato dal dubbio dell'opinabile, da questo segno tanto esposto, che sembra voler governare, orientare e se- gnare il testo intero e invece retrocede rapidamente a vistoso soprammobile stilistico e di fatto si defila, perdendo i propri originari connotati di afferma- zione decisa ma discutibile e lasciando libero campo a un passato accertato, ricostruito con esattezza, non più di- scusso o evitato. Che sia la "morale" del libro, la "testimonianza" dichiara- ta nel sottotitolo, il suo modo di sug- gerire una lettura attualizzante? Quali ragioni spingono Pereira a una scelta che capovolge la sua vita? Perché un giornalista scrupoloso e av- veduto, che conosce i trucchi del me- stiere e che non nutre molte illusioni, promosso alla cultura dopo aver con- sumato una vita nella cronaca nera - "di lei mi fido, ha fatto il cronista per trent'anni", gli dice il direttore - man- da tutto all'aria schierandosi dalla par- te di un rivoluzionario? Perché Pereira non rimane tranquillo nel suo ufficio - "una squallida stanzetta", per carità, "dove ronzava un ventilatore asmatico e c'era sempre puzzo di fritto", però anche un porto franco, una nicchia ap- partata - a compilare la rubrica delle ricorrenze e a tradurre scrittori france- si, senza lode ma senza infamia, un in- tellettuale con ambizioni pari alle sue non eccelse qualità? Invece quest'uo- mo marginale, troppo grasso e sudato per il suo cuore malandato, consuma- tore impenitente di omelette fritte e li- monate ghiacciate, vedovo di una mo- glie morta di tisi, avaro di sesso, senza figli, con un unico amico, si trasforma lentamente ma quasi invincibilmente, come se neppure dipendesse da lui, nell'eroe nostro malgrado che tutti una volta o l'altra vorremmo essere: il simbolo di un riscatto, tanto più lam- pante quanto meno prevedibile. Ma qual è la molla che fa di Pereira un uo- mo onesto fino all'esilio da quell'one- st'uomo che era? In questo interroga- tivo è racchiuso il fascino dell'ultimo romanzo di Antonio Tabucchi. È vero che siamo nell'estate del 1938, data sintomatica nella storia dell'Europa: l'estate in cui non si potè far finta di non vedere. È vero che il Portogallo del dittatore Salazar ap- poggia la crociata franchista contro la repubblica spagnola. E vero che il "Lisboa", il giornale di Pereira, ignora il massacro di un carrettiere socialista e dedica invece la prima pagina "allo yacht più lussuoso del mondo". È vero che Pereira parla alla moglie in foto- grafia del figlio che non hanno avuto e si sorprende a riflettere sulla morte e sulla resurrezione dei corpi che non desidera. Ma è anche vero che Pereira non si è mai occupato di politica. Diffida della politica come di qualcosa di malsano e pericoloso: "Oh, fece Pereira, la mia gioventù se n'è andata da un pezzo, quanto alla politica, a parte che non me ne interesso molto, non mi piacciono le persone fanatiche, mi pare che il mondo sia pieno di fa- natici". Ed è anche vero che Pereira conosce e applica a menadito le regole del gioco, per cui quando Monteiro Rossi, il giovane intellettuale che si è incautamente scelto come aiuto, gli porta un articoletto su Garcia Lorca, lui non esita a cestinarglielo: "Eh, no, trovò la forza di dire Pereira, niente Garda Lorca, per favore, ci sono trop- pi aspetti della sua vita e della sua morte che non si addicono a un gior- nale come il 'Lisboa', non so se lei si rende conto...". Mettiamola così: Pereira non avreb- be alcuna ragione per entrare in con- flitto con la direzione del giornale. Non è un oppresso, non è un ribelle, è un cattolico che crede nella comunio- ne delle anime. E questo spiega il tito- lo del libro, l'inciso ricorrente nella narrazione su cui tutti i critici si sono interrogati: Sostiene Pereira. Quel so- stiene è una difesa, una giustificazione, di fronte a un'inevitabile e attualissima obiezione, che potremmo condensare nel fatidico: chi te l'ha fatto fare? Il fatto è che Pereira è un giornali- sta. E i giornalisti hanno, o avrebbero, delle regole etiche da osservare, di cui vanno persino fieri: "Io non dipendo dal mio direttore nelle mie scelte lette- rarie", dice piccato Pereira al suo Monteiro Rossi. "La pagina culturale la dirigo io e io scelgo gli scrittori che mi interessano, perciò decido di affi- darle il compito e le lascio campo libe- ro, avrei voluto suggerirle Bernanos e Mauriac, perché mi piacciono, ma a questo punto non decido niente, a lei la decisione". A queste regole i giorna- listi possono crederci o non crederci. I più non ci credono. Ma Pereira è fra i meno. Non avesse questo neo, non fosse così individualista, sarebbe una perfet- ta riproduzione di tanti giornalisti giunti alla fine di una mediocre e ono- rata carriera: scettici ma scrupolosi, fe- deli al mestiere anche se disillusi, con- temporaneamente incapaci di negare la propria routiniera professionalità ma anche di ribellarsi ai diktat del ver- tice. Quante volte ricorda didattica- mente a Monteiro Rossi che si deve scrivere con le ragioni dell'intelligen- za: "Altrimenti, se scrive con le ragioni del cuore, lei andrà incontro a grandi complicazioni". Lasci perdere Lorca e Marinetti, Majakovskij e D'Annunzio, gli dice infatti. Scriva piuttosto su Mauriac e Bernanos, sull'anima e sulla morte. Però gli è rimasto un senso della di- gnità: gli sembra che oltre certi limiti un giornalista non possa compromet- tersi con le sottintese esigenze del giornale e del potere. Che cosa fare per esempio quando anche i cattolici D> Quando si sbaglia numero di Gabriella Maramieri Giovanni Pascutto, Veramente non mi chiamo Silvia, Marsilio, Venezia 1993, pp. 164, Lit 26.000. Hanno la vocazione all'infelicità e una tenden- za innata alla sfortuna, non riescono a odiare ma neppure ad amare, si sentono schiacciati dal de- grado urbano, ma anche turbali dal desolante pae- saggio interiore e quando, finalmente, giunge la telefonata tanto attesa, non arrivano a dirsi quello che vorrebbero, incapaci di dare voce al disagio che li opprime. Strano corteo di personaggi nelle storie, appena velate dall'ombra del paradosso, di Giovanni Pascutto, a partire da Milite ignoto, pri- ma e convincente prova del 1976. Strane paure e strani desideri proiettati in scenari di assoluta normalità urbana, ma in grado di incrinare, con tic impercettibili, ossessioni appena accennate, la limpida compattezza di esistenze se non piene, perlomeno ben organizzate. Dall'irriverente La famiglia è sacra (1977) all'intenso Strana la vita (1986), sono storie che sembrano fluttuare nel dif- ficile territorio dell'accadibile: in effetti si colloca- no in quella imperscrutabile zona della coscienza dove sedimenta l'ossessione nevrotica, lo scarto tra ciò che potrebbe accadere e quello che accade davvero, l'istante di follia che scatta tutte le volte in cui desiderio e realtà non coincidono. "Un ottimo antidoto all' angoscia quotidiana, ma anche a quella metafisica, può essere il gioco dell'ironia", commenta Giovanni Pascutto, classe 1948, autore di otto romanzi un po' snobbati dal- la critica accademica (ma lodati da Giuliano Manacorda, Enzo Siciliano e Giovanni Raboni), nonché consulente editoriale e sceneggiatore di film, che con modestia tende a mostrare di sé limi- ti e difetti, riducendo la sua opera a "un semplice gioco autoironico, per trasferire sulla pagina so- gni, desideri, insofferenze quotidiane". E rivelan- dosi invece abile autore di un gioco serissimo con- dotto sulle solide strutture del romanzo ora "d'azione", ora di "genere alto", capace di affron- tare, senza timidi diversivi e approssimazioni, te- mi veri, sullo sfondo dell'Italia dei brutti condo- mini, delle autostrade tentacolari, delle periferie smisurate. Costruite su personaggi che sono simboli forti del conflitto tra il vecchio e il nuovo, tra sensibi- lità personale e cinismo di massa, tra rumore as- sordante dei media e bisogno di silenzio interiore, le storie di Pascutto hanno una vistosa consonan- za con la nostra epoca, con le sue visioni e le sue paure: la perdita urbana del paesaggio (e del pro- prio orizzonte interiore), i consumistici riti televi- sivi, la difficile convivenza con le istituzioni, la ca- renza di ideali, il rapporto controverso con il pro- prio io e con gli altri, l'assillo degli inevitabili equivoci quotidiani, la rabbia dissacratoria quan- do non si riesce a dire, se non lateralmente, quello che si vorrebbe dire per chiarire tali equivoci. Ed è una faticosa maturazione, umana e intel- lettuale, quella che porterà Luciano, il protagoni- sta dell'ultimo romanzo, a dissimulare con ironia la sua inguaribile attitudine all'infelicità, e a si- glare, per la prima volta nel lungo corteo degli an- tieroi di Pascutto, il distacco dalla tipologia del personaggio sconfitto, la cui esistenza è spesso schiacciata da meccanismi impietosi, oscuri e in- controllabili (come accadeva in Tre locali più ser- vizi, 1980 e L'amico Friz, 1981). Irònico e am- miccante fin dal titolo, Veramente non mi chia- mo Silvia è insieme una precisazione di identità personale e una sottile allusione metaletteraria; è l'ironica commedia degli equivoci quotidiani, ed è anche l'acrobazia di una sintassi che affida a sa- pienti colpi di scena, a trovate folgoranti l'altera- zione simmetrica degli schemi di comportamento, pronti a chiudersi come gabbie su ogni reale slan- D>