marzo 1995 Di cie^L Un inesausto indagatore, abitato dalla politica n. 3, pag. 5 di Pier Vincenzo Mengaldo Per chi come me ha cominciato a lavorare su qualche decennio fra Quattro e Cinquecento, Dionisotti è stato subito una presenza indispensabile, magistrale. Era ed è il principe degli studi letterari su quell'epoca. Ecco i grandi lavori bembiani, dai giovanili all'antologia del 1966, con un'introduzione che continua a essere l'autorità assoluta sull'argomento. Ecco le Ragioni metriche del Quattrocento, che già mostravano il forte interesse di Dionisotti per la metrica come sismografo di tutta una situazione letteraria (più avanti, questa visuale ritornerà soprattutto nel saggio anch'esso decisivo sul petrarchismo quattrocentesco). Ed ecco l'edizione dell'Orazione ai nobili di Lucca del Guidiccioni, ristampata da poco per felice iniziativa di Adelphi con una freschissima Premessa dello studioso che fa da atrio dopo cinquant'anni alla capitale Introduzione, modello di integrazione fra analisi letteraria e storica. E tanto altro, fra cui allora e sempre la recensione alla Storia della lingua italiana di Migliorini, nutrientissima in fatti e per chi pensi che non si può fare storia della letteratura italiana senza storia della lingua (né questa, beninteso, senza storia della cultura). Ma per altri della mia generazione, e per la successiva, io penso che Dionisotti abbia cominciato a contare di fatto col volume di saggi Geografia e storia della letteratura italiana del 1967: dove per cominciare metterei in rilievo non tanto che a interventi rinascimentali se ne affiancano di moderni, quanto che all'articolo omonimo, grande attraversamento dell'intera nostra letteratura sotto specie regionale e municipale, se ne affiancano altri che la "tagliano" analogamente con ottiche fruttuose perché parziali, la recensione ricordata a Migliorini, il saggio su "chierici" e "laici" e quello sulla fortuna di Dante. Mi sembra che qui covino insieme la fiducia di poter fare la storia letteraria nella storia e la sfiducia nelle storie totalizzanti. Il libro ebbe — ha ancora — grandissima e meritatissima fortuna; ma purtroppo si incominciò subito a vedere — e lo spettacolo dura ancora — sciacquarsi la bocca con la "geografia" gente che in realtà praticava nel modo più chiuso quel monocentrismo su cui Dionisotti avrà a tornare criticamente. Ma ormai tecniche e richiami dei media invadevano gli studi sostituendo slogan a ricerca e verità, e facilitandone la deriva. Certo 0 richiamo alla geografia era fondamentale, e per conto suo Dionisotti vi resterà sempre fedele (fino, mettiamo, a Piemontesi e spiemontizzati, nel volume Appunti sui moderni)-, ma sarebbe stato, e fu così spesso, inerte senza il modo di far storia dell'autore, che comporta anzitutto un altro aspetto schivato o assorbito per neutralizzarlo dall'accademia italiana, come usa nel nostro trasformista paese. E questo è l'erosione decisa dello storicismo, cioè delle visioni speculative, ideologiche, per etichette della storia, portata praticando precisamente non meno ma più storia, lavorando sui divini dettagli e immergendo sempre la storia let- teraria in quella senza aggettivi, attraverso quel connettore principale che è la storia della cultura catturata a reti strette. Effettivamente io penso che a tutt'oggi arie di famiglia col metodo di Dionisotti non si trovano presso gli storici della letteratura ma presso i filologi romanzi, gli storici della lingua italiana e, sì, quelli dell'arte, e naturalmente gli storici-storici. Un ri- Dionisotti corregge, specie in una pagina di Geografia, la tesi crociana della contemporaneità d'ogni storia, tuttavia è attentissimo a quanto del passato italiano persiste, di solito infelicemente, nel presente. Ora l'intrecciarsi di questa dimensione alla prima non sarebbe così stretto se questo grandissimo storico non fosse abitato da una forte politicità, provata nel clima scista Gentile ("L'Indice" n. 9, 1985). La politicità poi può essere anche un contenuto e non solo un nutrimento, come nel saggio su Quintino Sella (similmente, è notevole l'interesse costante per i giuristi-letterati, a partire da Gino da Pistoia). Infine, fra le varie cose che Dionisotti ci ha insegnato c'è anche, indirettamente, che la storiografia è altra cosa dalla critica flesso importante dell'atteggiamento appena accennato è nella posizione dionisottiana verso Croce, entusiasticamente accolto come erudito e storico, rifiutato come teologo della storia (così più o meno anche in Arnaldo Momigliano). In anni più recenti sono apparsi, accentuando la forcella di cui sopra, Machiavellerie (1980) e Appunti sui moderni (1988). Mescolando le carte dei tre libri forse si comprende meglio la storiografia di Dionisotti. Per prima cosa, la storia della letteratura è sì immersa nella storia grande, però "è anzitutto storia degli uomini di lettere" (Dionisotti non userebbe mai il termine "intellettuale", stracco dopo il nobile uso gramsciano); d'altra parte "motivi morali e sociali sempre devono essere tenuti in conto, ma in letteratura anzitutto occorrono motivi letterari" e simili. Altro punto: inesausto indagatore delle differenze storiche, della Torino gobettiana, nell'antifascismo laico e cattolico, nella militanza nel partito d'Azione. Splendido: "Perché storia, che valga, e politica sempre sono state complementari l'una all'altra", e quale sia il temperamento politico di Dionisotti i lettori dell"Tndice" sanno, se ricordano la lettera ripubblicata qui sull'esecuzione del filosofo fa- (che egli non ha mai praticato, pur capace anche qui di straordinari affondi, per volontà fin troppo evidente di ritagliarsi uno spazio diverso dai propri coetanei crociani): oggetti e metodi dell'una e dell'altra sono diversi; si può cercare di armonizzarli; non si può darli per uguali in partenza. Amante dei tagli obliqui del ter- Lezione Sapegno Di Carlo Dionisotti è stata pubblicata, nel mese di dicembre, anche la lezione che ha dedicato a Natalino Sapegno, nell'ambito dell'attività del Centro Studi storico-letterari intitolato alla memoria del grande italianista: Natalino Sapegno dalla Torino di Gobetti alla cattedra romana (Bollati Boringhieri, pp. 85, Lit 12.000). Il testo della conferenza occupa solo una ventina di pagine. Completa il volumetto un'appendice di scritti di Sapegno. reno storico, attento alla storia degli "uomini di lettere", in genere più attratto dagli uomini che hanno scritto che dalle scritture (pur sapendo l'unicità di queste), infine studioso di fatto isolato ma partecipe per senso storico e amore degli studi di un coro di studiosi, Dionisotti non poteva non essere un maestro della biografia intellettuale: dei suoi antichi prima, poi di colleghi contemporanei: spiccano i saggi che formano il Ricordo dell'amico Arnaldo Momigliano, e abbiamo appena letta la calda e acuta commemorazione di Sapegno (perché si ferma prima del dopoguerra, e cioè del Sapegno marxista? Una risposta interessante potrebbe essere che allora, stabilito definitivamente in Inghilterra, Dionisotti non poteva più essere "testimone"). Più di un legame stringe questi testi ai (pochi) tipo il "breve epilogo autobiografico" delle Machiavellerie e la Premessa al Guidiccioni. Qui la non esibita ma insieme prepotente autobiograficità scalda i valori politici e militanti, e c'è una sorta di affascinante rifrazione della storia in più storie, quella sobria e devota al tutto di chi scrive, quella degli studi e della cultura, quella generale, e dal loro rimandarsi a vicenda deriva il senso che abbiamo di ricchezza e densità della ricostruzione. Di fronte all'opera di Dionisotti viene da chiedersi ancora una volta perché il Piemonte sia stato una così insigne culla di storici, da Longhi a Chabod a Fubini... Senza saper approfondire, credo di scorgere un rapporto con la funzione egemone della regione nella costruzione della nuova Italia, e dunque con la necessità di conoscere ciò che si andava egemonizzando; idem per la "geografia", quella del nostro maestro come quella che dettava a Longhi tante esplorazioni e rivoltamenti del canone artistico ricevuto. E in Dionisotti questa cultura e questo ethos hanno potuto immergersi, traendone stimoli, in una ricchissima strumentazione artigianale: gli indici, redatti da lui solo, del "Giornale storico della letteratura italiana" (1932) — è lì rappresentato il lascito della grande Scuola storica —, e la possibilità d'usare per decenni gli sterminati e ben catalogati fondi della "British Library". È su questo nobile sfondo che io lo penso sempre, con affetto, riconoscenza e magari anche invidia, nella sua vita "tutta consunta — così ha enunciato — nel nostro lavoro" (e il verbo dice assieme fatica, appagamento e oggettivazione; anche durata). Altrove Dionisotti ha scritto anche più mirabilmente, con un ossimoro di sapore agostiniano, dell'"inquieta felicità che è propria della ricerca e della conoscenza storica", e che è simile forse a quella dell'uomo di religione. E chi di noi sa leggere anche attraverso le pagine non resta solo avvinto dal fascino delle avventure intellettuali che Dionisotti ha corso, dalla ferma oggettività delle scoperte, premio per ogni vero studioso anche quando sia opera di altri, ma anzitutto da quel nesso difficile di inquietudine e felicità che — su diversa scala, si capisce — è anche quello che stringe noi.