marzo 1995 dei libri del mesel / Vt ^L-t-cV^crtL Dic^LL n. 3, pag. 7 cctcvc Zugzwang della vita di Alberto Papuzzi Gianni Riotta, Ultima dea, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 207, hit 28.000. Dicono che uno scrittore si riconosce nei dialoghi. I dialoghi di Riotta sono efficacissimi. Non si avverte in essi la mediazione letteraria che nella narrativa italiana spesso si frappone fra il personaggio e il lettore. Nel romanzo di Riotta la storia viene a galla soprattutto attraverso i dialoghi. Le sue pagine sono una specie di presa diretta. L'accademico Thomas Dio-gnetus, sessantacinque anni passati, vanamente fedele agli ideali del comunismo, il fratellastro Graham Ramsey, audace, affascinante, spregiudicato, trafficante d'arte e avventuriero internazionale, Roman Gamarekian, mercante d'armi, Fred Ricci, agente Cia, Jessica Li, agente Fbi, monsignor Gentili, inviato del Papa, la silfide Cinzia, il "pischello" Willy, piuttosto che raccontati sono visti e ascoltati. Come in un film. E come nella migliore tradizione del romanzo di marca americana. "D'italiano non c'è nulla in questo romanzo, certo non della generazione di Riotta — ha osservato Furio Colombo nella sua recensione su "Repubblica" —. Manca del tutto quell'io incombente che è diventata ormai la maglietta da corsa del 'giovane scrittore'". Ultima dea è un romanzo denso di azioni, emozionanti, impetuose o drammatiche. Accade di tutto: scontri bellici fra guerriglieri ex jugoslavi, conflitti a fuoco tra poliziotti e gangster, loschi traffici, processi di santificazione, l'esecuzione d'un mafioso, un salvataggio da annegamento, falsi amori, tradimenti e spionaggi. Storie diverse s'intrecciano in un avvincente gioco di incastri, che vedono i medesimi protagonisti mutare natura e intenzioni, quando si trasferiscono da un contesto all'altro, come se non dominassero mai gli eventi, ma ne fossero sempre soggiogati e condizionati. Anche da questo punto di vista, 0 romanzo di Riotta ricorda un film: nella struttura, nel montaggio, nella tensione narrativa che è quella del thriller. In ambito letterario il modello alto che viene in mente è un romanzo di vent'anni fa: Il dono di Humboldt di Saul Bellow, anch'esso fitto di personaggi e di vicende, in una Chicago dove il confine fra legalità e illegalità, fra perbenismo e gang- sterismo, fra vita e morte, è il montante d'acciaio sospeso nel vuoto d'un grattacielo in costruzione. Diciamo la verità: pochi oggi hanno 0 coraggio di scrivere libri così romanzeschi. A Riotta è possibile anche grazie a una sapiente scrittura. Ma la cosa singolare è che il lettore non pensa affatto di essere capitato in un mondo deformato per eccesso. Per quanto ecce- Adriatico? Non siamo stati gli impotenti spettatori dei traffici più inquinati e degli affari più sporchi? Dopo aver visto Calvi appeso per la gola nella nebbia del Tamigi, dopo aver visto Andreotti coinvolto nell'inchiesta sull'omicidio Pe-corelli, tanto per citare due casi, niente è così mostruoso come la normalità che ci circonda. La realtà galoppa qualche lunghezza davanti all'invenzione. Riotta che è un ottimo giornalista del "Corriere" l'ha capito benissimo. D'altronde le azioni e tensioni che popolano Ultima dea non sono mai fine a se stesse. Servono, inve- gala Riotta: chiusa l'ultima pagina del libro, il lettore scopre che tante avventure e tanti sconquassi non hanno prodotto alcuna rivoluzione bensì hanno determinato una restaurazione. Quale restaurazione? Quella del disordine. Quella della precarietà. Tutto è servito per ripristinare, per consolidare una normale Babele, un abituale Caos. Le molle che fanno scattare i meccanismi narrativi dei personaggi sono, per ciascuno, il bisogno di una propria risistemazione del mondo. Ma era un'illusione. Ultima dea è una corsa alla salvezza, ognuno attraverso una stra- Trame di Lidia De Federicis Dov'è la trama, il plot, quell'insieme di fatti e personaggi e storie tese verso un punto d'arrivo che assicura al lettore di romanzi il coinvolgimento e il divertimento? Riotta allarga la vicenda a dismisura e la sgretola attraverso l'eccesso e la complicazione; altri invece, come Giuseppe Culicchia e Dario Voltolini, la restringono a poco o niente con la grazia e la tenuità del minimalismo; oppure, come Silvia Ballestra, la disperdono nel magma del parlato giovanile. Riotta è nato nel 1954; Voltolini, di cui è uscito il secondo libro Rincorse (Einaudi), è del 1959; l'esordiente Culicchia è del 1966 e ha pubblicato Tutti giù per terra (Garzanti); Ballestra, 1969, è al terzo libro con Gli orsi (Feltrinelli), una raccolta di racconti che segue a due romanzi. Hanno differenze tra di loro. C'è a prima vista una bella differenza tra il mondo ricco, lo spazio intercontinentale evocato da Riotta, e le quattro strade torinesi nelle quali gira e rigira Culicchia, il mondo povero di cui ha parlato Cesare Cases ("L'Indice", XI, 7, luglio 1994). Eppure questi narratori di nuova generazione hanno scelto tutti, in qualche misura, di rappresentare il cambiamento della nostra epoca registrandone i nuovi linguaggi e i luoghi comuni, i nuovi luoghi dell'immaginario. Non si tratta solo di una correzione del paesaggio, di una semplice sostituzione di oggetti che è già avviata da tempo nella narrativa anche italiana. Già sono entrati in scena, assieme alle realtà urbane, gli oggetti funzionali della comunicazione tecnologica: computer da digitare, bottoni da premere, schermi, telefoni, casse (dell'impianto stereofonico) e cassette, e dap- pertutto l'automobile che s'ingorga o s'avventa (anzi, nelle curve scivolose "scodava via di culo", dice benissimo Silvia Ballestra). E argomento, con l'opposizione fra corporeità funzionale e non, ci rimanda al grande saggio di Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, recensito per noi da Gianfranco Rubino e da Alberto Papuzzi ("L'Indice", X, 5, maggio 1993). Si profila però un'altra novità, uno sperimentalismo che riguarda non tanto la materia quanto le strutture del racconto. Qui voglio citare anch'io il citatissimo Paul Virilio, perché lo ripropone e commenta Francesco Leo-netti conversando con Paolo Volponi in un libro "vivo e scalciante" che appare ora e sul quale torneremo (11 leone e la volpe. Dialogo nell'inverno del 1994, Einaudi, Torino 1995). Se il carattere peculiare della cultura che nasce nella trama delle comunicazioni è la "dromoscopia" (parola di Virilio), il "vedere correndo", questi narratori ne hanno accettato la sfida. Il ritmo veloce e il montaggio sincopato del racconto indeboliscono le tradizionali strutture portatrici di significato — la vicenda e i personaggi. Restano le azioni, escono le motivazioni. Esce il realismo, entra l'iperrealismo dei fumetti e dei gerghi (e con i gerghi rientra a volte l'attrazione insidiosa dell'esercizio distile). I recensori, per caratterizzare il nuovo modo di scrittura, adottano nuove metafore prese dai campi extraletterari: il rock, il flipper, lo zapping. Intanto nasce un problema. E esperienza della lentezza non era forse l'offerta specifica del libro? La lenta e lunga immersione nel testo, non era il vero piacere della lettura, una sua ragion d'essere? zionali, queste vite non ci meravigliano più. Non conviviamo tranquillamente con una guerra atroce che si combatte al di là del Mare Ombra veneziana Gianni Riotta (Palermo, 1954), inviato ed editorialista del "Corriere della Sera", che vive a New York, formatosi alla scuola del "manifesto" e dell'"Espresso", ha già pubblicato la raccolta di racconti Cambio di stagione (Feltrinelli, 1991) ed è l'autore dell'ultimo titolo della collezione di storie veneziane che il Consorzio Venezia Nuova pubblica ogni Natale, però in edizioni fuori commercio. Dopo Brodskij, Chastel, Sinopoli, Brodkey, Acheng, ecco Ombra, un "capriccio veneziano" di 130 pagine, completato da sei "doppie immagini" del giovane fotografo Luca Trovato: E occhio d'acqua. Una favola, con un misterioso miliardario, una diva del video, un giovane eroe, una sindaco donna, due immigrati, l'ex galeotto, l'ex detective, ecc. ce, a mettere a nudo il significato dei personaggi, come se solo questo incalzare di avventure e di emozioni avesse la forza di liberare le loro vere nature dalle apparenze in cui le convenzioni le imprigionano. Tra la prima e l'ultima pagina il romanzo è dunque teatro di una serie di disvelamenti. Il mite Diognetus si scopre un eroe, l'audace Ramsey precipita nella pavidità, la vendicatrice Cinzia piangerà sul grembo della santona Irene, Fred Ricci ritrova il figlio, mai conosciuto, in un giovane che lo pedinava e che credeva appartenesse all'Ombra cinese. Mentre s'interrompe la causa di beatificazione del matematico Alfred Diognetus, padre di Thomas e Graham: troppi imbarazzanti imprevisti, "aspettiamo che gli animi si calmino". Ma che cosa resta alla fine? Che cosa è veramente cambiato? Ecco l'inatteso coup de théàtre che ci re- da diversa: la scienza, l'arte, la ricchezza, la fede, la santità, l'amore. Ma non c'è salvezza alla fine della corsa, perché Thomas e Graham resteranno sempre inconciliabili: bene e male, pietà e cinismo, abnegazione e invidia, fedeltà e tradimento. "Guardò il fratello e disse pianissimo: 'Non c'è ordine, Graham. Smetti dunque di chiederti se papà amava più me o te. Amava più te'". Non c'è salvezza: c'è solo l'ultima dea, che come si sa è la speranza. D'altronde una spia del romanzo è una parola che appare enigmaticamente qua e là: Zugzwang. Finché Fred Ricci non incontra il figlio perduto e gliene chiede spiegazione: "Quando in una partita di scacchi — risponde il giovane —, qualunque mossa decidi di fare, è seguita comunque da una catastrofe". E Ricci: "Torniamo a casa, figliolo, non ne posso più di parole straniere". Non va così anche la vita? rnr? 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