riNPJCF ■■dei libri del meseBH GENNAIO 1995 • N. 1, PAG. 8 Costrizione e libertà di Giovanni Cacciavillani Che fine hanno fatto le anatre? di Barbara Franco Samuel beckett, Teatro completo, edi- zione presentata e annotata da Paolo Bertinetti, traduzioni a cura di Carlo Frutterò, Einaudi-Gallimard, Torino 1994, pp. 936, Lit 95.000. Nella franco-italiana "Biblioteca del- la Plèiade" è questo, probabilmente, il volume più fortunato: più riccamente curato, con annotazioni, appendici cri- tiche e apparati vari (bellissimo quello iconografico) che quasi superano le pagine occupate dal corpus teatrale beckettiano. Ed è un altro motivo di interesse ritrovare qui riunito "tutto il teatro", in una serie di traduzioni per più motivi esemplari. Nelle lapidarie pagine della sua presentazione, Frutte- rò afferma che "basta in verità aver presente l'Ecclesiaste per sapere di che cosa tratti il teatro di Samuel Beckett. Eccoci qui, tra l'urlo della nascita e il rantolo della morte..." E, di fatto, an- che Adorno, in un suo intervento me- morabile, ebbe a notare con forza che, come la lingua si degrada a delirio ma- niacale, "così i personaggi regredisco- no ad uno stadio post-psicologico, quale si verifica nei vecchi e nei tortu- rati ". Non molto discosto dalle "con- trazioni" dello spazio letterario di Kafka, il linguaggio beckettiano (nar- rativo ma forse soprattutto teatrale) si pone come l'ultimo cordone ombelica- le che lega alla vita per un soggetto po- st-vitale o pre-mortale, la cui parola non ha più senso ma che, proprio nella sua insensatezza, è nondimeno tutto. La situazione di base è quella di una voce, tenacemente avvinta a un "qui e ora", che però, paradossalmente, è pri- vo di dimensioni spazio-temporali ben definite, sorda all'Altro, incessante- mente interrogante o mormorante, si- no alle soglie del silenzio, che al vuoto immedicabile dell'esistere rimedia con un "dire" altrettanto svuotato di pro- gettualità: "Tutto è quasi morto, ma ancora resta questa vita che non è più nulla". Poiché non esiste mai un punto di riferimento certo, una fine, una ve- rità, un reale ricordo, il personaggio beckettiano — sempre più ridotto a presenza larvale — appare come un Si- sifo delirante costretto a dire, sempre e invano, la sua infinita solitudine, la sua totale miseria (nel senso pascaliano del termine). Così, ha ben ragione Boi- sdeffre di osservare che queste assenti presenze "parlano della loro vita, ora come di una cosa ormai finita, ora co- me di uno scherzo che dura ancora, senza sapere su quale tempo coniugare quell'atomo di esistenza, quella vita e quella morte contemporaneamente pre- senti e assenti, in potenza e in atto". I cicli biologici stessi sono profonda- mente scossi, dal momento che nasce- re, ascendere, decrescere, morire, non compongono una temporalità vissuta lineare (la "freccia del tempo"), ma so- no dati come realtà simultaneamente presenti: "Ma cos'è questa storia di non poter morire, vivere, nascere, que- sta storia di restare là dove ci si trova, morenti, viventi, nascenti..." Alla stasi temporale corrisponde una stasi spa- ziale che ulteriormente riduce il sog- getto a dimensioni di irrealtà o di non- esistenza, ovvero di una ripetitività che non garantisce nulla se non il fatto che "tutto quel che accade sono parole, e ancora parole che non fondano niente, ma tuttavia parole (o 'suoni', 'rumori') come superstite forma di essere". II restringimento progressivo di questo "spazio" abitato da un delirio vocale è l'unico dato certo dell'opera di Beckett, — e l'autore lo chiama "contraction" evocando dimensioni esistenziali di angoscia, di claustrazio- ne, ma anche testuali, di scarnificazio- ne e restringimento. Con grande forza evocativa, il compianto Guido Neri co- sì introduceva una silloge di testi dell'ultima fase: "Pulsazione aritmica di embrioni, larve o riflessi, dentro un cranio, un utero o un polmone; silen- zioso crepitio fotoelettrico, oscillazio- ne combinatoria, in una materia verba- le che sembra mimare una densità su- batomica". Ma per cingere più da presso il suo teatro, lo stesso Bertinetti non può non sottolineare come, sin dall'inizio, per Beckett la "costrizione" non valga come impedimento, bensì come paradossale occasione di libertà. Al proposito è emblematico il dramma giovanile Eleuthéria (in greco, "li- bertà"), dove non solo il protagonista cerca di liberarsi dalla morsa familiare, ma dove l'autore espelle per sempre e senza mezzi termini il famigerato "sa- lotto" di casa borghese, che tanta par- te aveva avuto sulla scena del teatro di fine Ottocento e di primo Novecento. Se Aspettando Godot (1952) illustra, con straordinaria vigoria e risonanza, il celebre detto di Yeats — "La vita è l'attesa di qualcosa che non giunge mai" —, non è in quel grande esordio meno evidente il ricorso alla beffa e al grottesco: "Niente è più comico dell'infelicità". A questi elementi — che trovano il loro coronamento in Fi- nale di partita — va aggiunto il fatto che Beckett, pur muovendosi in un "teatro di parola" (all'opposto di mol- te altre importanti vicende teatrali no- vecentesche), porta la paiola al suo an- nientamento. Il linguaggio nega se stesso e la comunicazione "annuncia che non è più possibile alcuna comuni- cazione" (Adorno). E se la "conversazione", pur ridotta a quella standard di un manuale di conversazione, sussiste ancora per qualche tempo, con L'ultimo nastra di Krapp essa scompare e cede il posto al- la leggendaria "voce monologante". Monologo interiore o flusso di co- scienza ripreso dall'amico Joyce, ma con l'introduzione di un medium — il registratore — che ben emblematizza la nuova realtà del Moderno. Al ricor- do si sostituisce la registrazione; gli eventi sono bensì "incisi", ma nello stesso tempo divelti da ogni possibile elaborazione interiore. In Giorni felici, dopo l'eliminazione del dialogo, vi è la scomparsa del movi- mento; e già si profila la "voce" di quella Bocca che dominerà in modo orrifico (ricordando un po' la pittura di Bacon) in Non io. Come osserva il curatore, qui il "teatro" ritorna alle origini greche, col significato, appun- to, di "vedere". La situazione fonda- mentale della pièce viene vista: il senso è primordialmente visivo. Parallela- mente, assume rilievo — nella genesi del testo — non tanto l'intreccio o la situazione, bensì l'immagine. Winnie semisepolta in Giorni felici, le urne in Commedia, i rifiuti di Respiro, il crate- re di suoni della Bocca in Non io, il vol- to di Quella volta, il su e giù di Passi, la sedia e il gioco di luci in Dondolo. Nella fase dei dramaticules, la voce, martoriata, tace: il silenzio dell'imma- gine trionfa sulla parola ( Trio degli spi- riti,... nuvole...). Non a caso, Martin Esslin parla di "liriche visive" a propo- sito dei due ultimi lavori beckettiani: Quad e Nacht und Trdume, quasi che l'immagine poetica generativa fosse riuscita a liberarsi della parola per sempre. Quale sarebbe stato il passo ulteriore del grande drammaturgo? Non lo sapremo mai. Ma possiamo con- cludere con Bertinetti che quest'opera, radicale nelle sue parti e nel suo insie- me, resterà "uno dei massimi esempi di comunicazione dell'esperienza nell'epo- ca della distruzione dell'esperienza". Robert James Waller, Valzer lento a Cedar Bend, Frassinelli, Milano 1994, ed. orig. 1993, trad. dall'americano di Olivia Crosio, pp. 208, Lit 24.500. La domanda è sempre la stessa: dove vanno a finire le anatre? Se lo chiedeva il giovane Holden di Salinger e se lo chiede, in un contesto del tutto diver- so, Michael Tillman, il protagonista del secondo romanzo di Robert James Waller. Agli amanti di Salinger la cosa sembrerà addirittura blasfema, anche perché il romanzo di Waller, ha ben poco della leggerezza e della genialità del capolavoro di Salinger. A metà del- la sua vita Michael Tillman, professore universitario brillante quanto alternati- vo, incontra il grande amore, l'affasci- nante Jellie Braden, moglie di un suo collega. È un sentimento "impossibi- le", clandestino, che viene interrotto quasi subito, ma poi risorge — e anzi trova la forza di imporsi — proprio grazie all'episodio delle anatre, collo- cato da Waller al centro esatto del ro- manzo. C'è dell'altro, per fortuna: la storia dei due si complica, si dipana at- traverso fughe e inseguimenti; ma il nucleo è proprio quello. Michael e Jel- lie salvano le anatre dello stagno uni- versitario da una colata di cemento, e cioè la costruzione di un nuovo edifi- cio. Letteralmente i due si occupano del trasloco dei simpatici pennuti, e l'occasione è galeotta per il loro riawi- cin amento. Forse avremmo gradito che il riferi- mento a Salinger, voluto o no, fosse in- serito in un romanzo un po' più con- vincente. Comunque: quando Michael Tillman, professore insoddisfatto e di- sincantato, alla ricerca del fatidico "senso" della vita si chiede "Che fine faranno le anatre?" quando la vivibilità del loro ambiente verrà compromessa, tutti noi pensiamo al giovane Holden, alla sua visione del mondo amara e al tempo stesso fatalmente ingenua. E ci chiediamo: cosa ha in comune con Holden quest'uomo di mezza età che non ha ancora trovato se stesso e tiene la moto in salotto? Forse Michael è un Holden cresciuto, che non ha ancora capito bene in che cosa deve credere e si dibatte alla ricerca di una risposta fi- nalmente esauriente alla domanda che solo lui si pone, un appiglio qualsiasi per non sprofondare definitivamente nell'igienismo mentale dei suoi colle- ghi. E l'appiglio è ancora una volta, co- me sempre, un dettaglio solo apparen- temente insignificante, che però diven- ta il punto di svolta, la spia dell'ecce- zionalità, la lista di tutte le possibili "soluzioni". Ma poiché Waller non è Salinger (non può fermarsi alla domanda, ha bi- sogno di certezze, di ricadere nella scelta tangibile e prevedibile) fa in mo- do che il suo protagonista salvi davve- ro le ormai celeberrime anatre, e noi (il lettore) ci sentiamo come se avessero demolito anticipatamente il Pequod di Moby Dick. Michael Tillman, nel trionfo del già scritto, trova rifugio nell'unica oasi possibile, già affollata da personaggi come lui, insoddisfatti e non certo audaci: l'amore sensuale e struggente. A questo punto sembra doveroso chiedersi quali siano le ragioni dello strepitoso successo di questo secondo libro di Waller, che sta replicando l'evento editoriale del romanzo d'esor- dio, il fortunatissimo I ponti di Madi- son County. Si tratta del solito tam-tam pubblicitario o della straordinaria ca- pacità di uno scrittore di elargire a giu- ste dosi tutti gli argomenti di cui il pubblico vuole sentire parlare? La prosa di Waller è vivace, accattivante, perché fa tesoro della lezione dei gran- di maestri contemporanei, ma la con- versazione è spesso forzata, non regge la prova jamesiana della lettura ad alta voce, e le immagini non sempre sono convincenti. I tasselli della vicenda, poi, sono quanto mai scontati. L'in- contro tra Michael e Jellie, la realizza- zione dell'amore e del sesso, il prema- turo addio, la fuga di lei, la ricerca af- fannosa da parte di lui, la rivelazione di un passato di impegno politico e di una maternità "indicibile", il ritorno e poi l'imperfezione della quotidianità. C'è tutto: potrebbe essere una soap- opera, con tanto di incidente che non è mai mortale, anche se l'autore lo lascia credere per alcuni istanti, lo spazio di poche righe. Ma potrebbe anche essere una tipica storia d'amore della tradi- zione più classica, un sentimento osta- colato da mille difficoltà e infine ritro- vato a dispetto di tutti, persino del De- stino. O ancora, come nelle migliori fa- vole, aiutato da un intervento magico, il soprannaturale che realizza l'impos- sibile. Queste dunque le fondamenta, non sempre nobili, di Valzer lento a Cedar Bend. quando leggiamo che Michael, con tanto di giubbotto di pelle nera e capelli lunghi "montò sul suo destriero d'acciaio" non possiamo fare a meno di sorridere, e di vergognarci di aver pensato anche solo lontanamente a Sa- linger. L'abilità dell'autore è comunque in- negabile quando si dimostra capace di tratteggiare ogni personaggio con po- che parole. Così il dettaglio è spesso in primo piano, come in un'inquadratura cinematografica che progressivamente svela il resto del mondo ma mai intera- mente, perché non ce n'è bisogno e co- 0 Sesso vero e immaginario di Massimo Bacigalupo John McGahern, Il pornografo, Einaudi, Tori- no 1994, ed. orig. 1979, trad. dall'inglese di Su- sanna Basso, pp. 258, Lit 26.000. Il titolo e la confezione — foto in copertina di Alberto Terrile: donna nuda accovacciata in una valigia — non devono ingannare. Non si tratta di un romanzo postmoderno o di serial killers eroto- mani, bensì di una bella storia ben costruita tutta dolorosamente incentrata su una realtà nient'af- fatto plastificata. Insomma, si tratta di Irlanda. È vero che McGahern, nato a Dublino nel 1935, è noto come un romanziere scomodo il cui secondo romanzo, The Dark (1965), fece scandalo per il modo in cui parlava di sesso e religione. Ed è vero che, secondo un'altra tradizione irlandese, da Ja- mes Joyce a Flann O'Brien, gli piace mettere a confronto diverse rappresentazioni metanarrative della realtà. Ma l'intento del gioco è serio, non perde mai di vista la specificità delle persone che vivono e sognano. E muoiono. Il pornografo è fra l'altro la lenta storia di una morte, quella della zia molto cara al protagonista- narratore, che la va a trovare in ospedale portan- dole in un cartoccio del liquore per lenire il dolore f^x ■ tv i \>. LO" terminale. Poi, tornato nel suo appartamentino dublinese, egli scrive per vivere storie di prodezze erotiche di una coppia di superdotati, mai stanchi di possedersi secondo le regole classiche del gene- re. Brani del racconto pornografico si alternano al- la storia di ogni giorno del suo compilatore, con un effetto di sardonico contrasto, e a volte di rispec- chiamento. Infatti il protagonista è troppo scritto- re, cosa che il suo committente gli rimprovera, e fra un amplesso e l'altro non si trattiene dall'inse- rire squarci di vita vissuta. Ma diversamente che nel paradiso artificiale della pornografia, una sua relazione con una donna più anziana, di cui se- guiamo lutto il percorso, conduce a una gravidan- za e a una serie di banali quanto ineludibili alter- native per la coppia: aborto, convivenza, matrimo- nio... Il nostro pornografo riuscirà a uscire dall'im- piccio in cui l'ha condotto l'euforia del sesso casuale degli anni settanta (il romanzo è del 1979), e a programmare una relazione e una vita diversa, basata sui valori terragni rappresentati dalla zia. Il pornografo non è invecchiato, nonostante i quindici anni trascorsi dalla sua pubblicazione. L'ossessione del sesso e della morte, caratteristica della cattolicissima Irlanda come ci rivelano i suoi narratori e poeti, vi è inquadrata in una scrittura risolta, astuta (ad esempio nel tacere i nomi delle donne) ma non compiaciuta, ben servita da una traduzione più che adeguata. I quadri di discote- che, puh e fattorie irlandesi non mancheranno di incuriosire il lettore. A cui McGahern, alternando sesso vero e immaginario, chiede inoltre di riflet- tere sull'accusa di pornografo che sicuramente è stata rivolta a lui come ad altri. Nulla in effetti im- pedirebbe una ricezione pornografica anche e so- prattutto delle scene "vere" della narrazione. Ma in questo caso è il lettore a determinare il genere dell'opera. Insomma, un libro di gradevole lettura, e anche importante.