APRILE 1998 HNPicc t~bbdei ubri del mesebé i ' haitonalb N. 4, PAG. 2 Il 18 aprile 1948 Il cinquantenario del 18 aprile di- mostra l'insensatezza dell'abitudine a parlare di storia per cifre tonde. E nel 1989, al momento del crollo del muro di Berlino, che avremmo dovu- to discutere del 18 aprile. Allora crollò anche quell'assetto di potere, interno al nostro paese, di cui la grande vittoria elettorale della De- mocrazia cristiana sulle sinistre unite segnò l'inizio. Poiché allora quella discussione non ebbe luogo, almeno che io ricordi, proviamo a farla con nove anni di ritardo. Quella grande vittoria della De portava il segno dell'egemonia ame- ricana in un'Europa ormai divisa dal- la guerra fredda, con modalità diver- se soggetta in entrambe le sue parti alle due superpotenze. L'Italia, più di tutti gli altri paesi dell'Europa occi- dentale, riproduceva al proprio in- terno quella spaccatura, subendo una doppia limitazione di sovranità. Mentre i legami con l'Occidente co- stituivano una sorta di assicurazione sulla vita a favore della De e della classe dirigente ad essa alleata, solo in Italia (e per un certo periodo in Francia) l'opposizione fu segnata da una dipendenza da Mosca, che andò attenuandosi solo alla fine degli anni sessanta. Quella del 18 aprile fu una scelta li- bera e consapevole del popolo italia- no, anche se condizionata dagli Stati Uniti che offrivano il Piano Marshall e da un'Unione Sovietica, fin da allo- ra sulla difensiva, che faceva volare Jan Masaryk dalla finestra del suo uf- ficio di ministro degli esteri a Praga. A suo tempo ebbe ragione Pietro Scoppola nel sostenere che De Ga- speri e Togliatti fecero del loro me- glio per attenuare il peso di quei con- dizionamenti internazionali, svilup- pando un sistema democratico che però non consentiva alternanza alla guida politica del paese. Quando di- minuì la dipendenza della sinistra da Mosca e aumentarono le sue prospet- tive di conquistare il governo per via democratica, non a caso si sviluppò una fitta catena di eventi rimasta mi- steriosa nella sua natura, ma non nel suo effetto principale, che fu quello di allontanare l'ipotesi di quell'alter- nanza. Ormai possiamo affermare che la controprova di tutto ciò è quanto ac- caduto dopo il fatidico crollo del mu- ro. In questo senso i nove anni di ri- tardo con cui affrontiamo il significa- to storico del 18 aprile non sono stati sprecati. Lo splendido isolamento dell'unica potenza globale rimasta - che ricorda quello dell'Impero bri- tannico al massimo del suo fulgore - non ne ha aumentato la capacità di controllo che richiedeva il sostegno di un avversario globale da combatte- re (i cosiddetti rogne states non sono sufficienti, come dimostra la recente crisi irachena). Ciò è particolarmente evidente in quello straordinario laboratorio della guerra fredda che era il nostro paese, ove l'influenza degli Stati Uniti è sta- ta drasticamente ridotta, soprattutto sulla politica interna, e ove i fatti di sangue che lo condizionavano sono cessati. Sono diventate possibili in- chieste giudiziare che hanno messo in crisi un regime. L'alternanza è stata praticata per ben due volte in pochi anni. I pellegrinaggi politici conti- nuano, ma la meta di Washington è stata sostituita da Bonn, e soprattutto da Bruxelles, una capitale in qualche misura comune. La stessa sinistra può festeggiare il 18 aprile come una tappa dura ma ne- cessaria per lo sviluppo della sua li- bertà (ricordate il famoso ombrello, non di Chamberlain, ma di Berlin- guer?) e della sua capacità di gover- no. Non è tutto, ma non è neanche poco. Il seguito è in larga parte nelle nostre mani. Gian Giacomo Migone Chi fosse interessato ad approfondire le questioni relative al bipolarismo nel- la politica italiana troverà, a pagina 33 di questo numero, una bibliografia ra- gionata sull'argomento. Lettere Qualche inconsistenza 2. Per noi lettori meno qualificati la "consistenza" di una rivista non può essere messa in discussione da qualche leggerezza biografica o grammaticale. Però, come avete potuto non controllare minuzio- samente il testo della risposta al signor G. Choukhadarian pub- blicata sul numero di febbraio? L'accento di ambiguità rimasto nella penna e quel "non tratta" orfano del si non ci sono sembrati all'altezza delle osservazioni dell'attento lettore di Imperia. Per il resto torniamo alla nostra affannosa rincorsa della soglia minima di sussistenza culturale: la lettura del Dottor Zivago e del Mulino del Po. Con la promessa di suggerimenti migliori nel no- stro, speriamo prossimo, futuro di "cultori della materia". PS. A proposito, vi piace pro- prio tanto il verdino? Claudia Villata, Torino Paolo Lombardi, Milano Immaginate di camminare fati- cosamente controvento o di nuo- tare ostinatamente controcorren- te. Non che voi amiate essere dei bastian contrari: tutt'altro, solo che la vostra strada è quella e non potete per comodità girarle le spalle e lasciarvi andare ai flussi favorevoli. Talvolta nella nostra redazione abbiamo di queste sen- sazioni, per cui una lettera come quella dei gentili lettori Villata e Lombardi è come una sosta per ti- rare il fiato. È vero: ci è rimasto un "si" sulla punta della penna, ma non per questo perdiamo la loro fiducia: giustamente critica. La "consistenza" deW'Tndice" ri- guarda il progetto complessivo da cui nasce la rivista, che speriamo sia più chiaro con la varata novità dei "Libri del Mese". Quanto alla soglia minima di sussistenza, a Pasternak e Bacchelli possiamo aggiungere, per restare alle scelte di questo numero, Puzzati e Cela- ti, magari Tocqueville e, perché no, i ritratti di Grazia Cherchi. Quanto al colore, dopo un ga- gliardo rosso vivo, ecco un prima- verile blu pervinca. Vintila Horia. È davvero un peccato che, recensendo sulLTndice" di febbraio II dia- rio di Ovidio di Marin Mincu e tracciandone possibili e varie parentele, Giancarlo [N.d.R., in realtà Gian Paolo, a differenza di quanto si legge nel numero di febbraio] Caprettini non abbia citato Dio è nato in esilio, di Vin- tila Horia, anch'egli rumeno, pubblicato in Italia nel 1961 dal- le Edizioni del Borghese, ed è un peccato che non l'abbiano no- minato né l'editore né l'autore, nei risguardi di copertina, in una prefazione, in una postfazione o in una bibliografia, che manca- no nel volume di Bompiani. Va- rie spiegazioni possono essere date a questo silenzio. La prima: tutti costoro non hanno mai sen- tito parlare di Horia e del suo li- bro (peccato veniale: non si può sapere tutto). La seconda: che l'omissione sia dovuta ad un re- siduo, magari inconscio, di os- servanza di quei canoni che tan- to a lungo hanno contraddistin- to una certa cultura "di sinistra" in Italia, quelli, per intenderci, in forza dei quali per anni fu "proibito" leggere Tolkien per- ché era "un fascista" (e se si trat- tasse di questo, 0 peccato sareb- be mortale. (...) Giuliano Corà, Barbarano (Vi) Alla lettera del sig. Giuliano Corà credo abbia dato risposta soddisfacente il convegno che si è svolto in Sulmona, città natale di Ovidio, nei giorni 20-21 marzo, nel corso del quale sono stati ap- punto trattati i rapporti fra l'ope- ra di Vintila Horia e quella di Mincu. Quanto a me, l'unica re- sponsabilità oggettiva che mi compete è quella di non sapere dell'esistenza di Dio è nato in esilio di Horia, testo, per i dati ri- portati nella lettera, che appare non tanto come un richiamo cul- turale intertestuale ma piuttosto come una vera e propria fonte o modello di Mincu; a quest'ulti- mo bisognerebbe chiedere il mo- tivo di un mancato rinvio esplici- to, oppure la natura delle conver- genze e divergenze con il testo di Horia. Siamo nel campo delle in- venzioni, reinvenzioni, contami- nazioni letterarie, e non tanto dei veti o delle censure. Vorrei a questo proposito aggiungere una considerazione personale in mar- gine alla mia recensione: risulta francamente difficile sostenere - come fa Mincu - che Publio Ovi- dio Nasone sia stato l'artefice di una simulazione poetica, e abbia deciso di autoesiliarsi: basta leg- gere i versi dei Tristia 1,3, dove Ovidio parla della "notte estre- ma" delle lacrime, dello stordi- mento e dello smarrimento del "senso della vita" che attraversa- rono le ultime sue ore romane. Ma, ancora una volta: un conto è l'accertamento storico dei fatti - che coinvolge anche gli scrittori come soggetti storici - e che me- rita di essere affiancato, partendo induttivamente dai testi, da un'indagine filologica, per porre in luce i debiti contatti, un conto sono iprocedimenti dell'immagi- nario, dei modi possibili posti in essere dalla creatività, di cui sono artefici e responsabili i singoli autori. Gian Paolo Caprettini