GENNAIO 1998 i cc^txc N. 1, PAG. 11 Romanzi di giornalisti Sergio Saviane, El còce, Marsilio, Venezia 1997, pp. 195, Lit 22.000. È del 1960 il film di Marco Ferreri, tratto da un racconto dello spagnolo Raphael Azcona, nel quale un vecchietto stermina la famiglia pur di potersi comperare un magnifico coche-cito bianco. Da questo premonitore e famoso El cochecito, Sergio Saviane ha derivato il titolo del suo nuovo romanzo, El còce: s'intenda il biroccio o carretto, carrettino, carrozzino, la carrozzella insomma dei paraplegici, oggi uno sterminato esercito e quasi tutti giovani, "quasi tutti finiti di notte sulle strade d'Italia". Saviane (nato a Castelfranco Veneto nel 1925) è un vecchio giornalista, provato dalle disavventure dell'impegno e della vita. Ha legato il suo nome all'"Espresso" e a una rubrica televisiva rimasta indimenticabile, perché persone e programmi vi erano commentati con il sarcasmo assoluto di chi ritiene che qualcosa come la televisione al servizio della politica proprio non dovrebbe esistere. L'ironia, che oltrepassa luoghi comuni e buone maniere, l'ironia come forma d'impegno o di semplice autodifesa, è ancora lo stile che collega Saviane al modo di vita e all'ambiente di El còce. E come potrebbero altrimenti resistere, se non accettandosi nel grottesco, questi carrozzati a vita, questi mutilati con le gambe a strascico (o si dica anche a rimorchio), questi bei ragazzi da discoteca tranciati a metà? Il libro intreccia il racconto del testimone, su cose e figure viste nel Centro paraplegici di Spilimbergo, con quello del romanziere, che immagina una storia d'amore prevedibilmente complicata, e con la felicità linguistica, frutto di uh mestiere provetto nell'ideare lunghi monologhi e dialoghi fitti di battute sul mondo d'oggi. Ma è la storia d'amore, sono le peripezie della coppia anomala di Giovanna e Giulio che ne condensano il tema. "Che ognuno viva il proprio erotismo come può e sa, perché è solo quello di cui ha realmente bisogno", è in conclusione il commento esplicito e incoraggiante di Vladimiro Kosic, tetraplegico presidente del Centro. Invece il partecipe lettore si ritrova alle prese con un nocciolo di verità dura e volentieri rimossa. Perché dire, come s'usa, che abbiamo un corpo? La verità è che siamo un corpo. Lidia De Federicis Giampaolo Pansa, La bambina dalle mani sporche, Sperling & Kupfer, Milano 1997, pp. 314, Lit 28.900. Com'era prevedibile, Giampaolo Pansa ha continuato la sua ri lettura narrativa della nostra storia recente spingendosi ora fino agli anni novanta. L'impostazione è sempre quella alla Remarque, di chi contrappone la purezza, la solidità dei buoni sentimenti privati (l'amore, gli affetti familiari, le amicizie, ecc.) alla durezza, alla sporcizia, alle trappole della vita pubblica che fa da sfondo. Qui è la storia d'amore di due compagni d'infanzia che si ritrovano mentre la prima Repubblica cade sotto il terremoto di Mani pulite, tra le rovine di Tangentopoli. La vicinanza di eventi e personaggi nuoce alla rivisitazione romanzesca: le figure storiche distur- bano (a partire dalla stessa, spesso infelice onomastica) i loro equivalenti narrativi. Il dottor Di Paolo, il Preside di Novara, il Segretario della Rosa, il Delfino, ecc. sono ancora troppo ingombranti nella realtà per respirare a pieno nel romanzo. Ma il racconto c'è, eccome. Pansa ci sa fare: anzi, se posso dirlo, la rilettura storica del romanziere risulta persino, più convincente e meno forsennata di quella del giornalista dell'Espresso": basti pensare allo spietato ritratto del mitico giudice Di Paolo, che incarna una spaventosa idea di giustizia senza legge, o alla denuncia (affidata a un troppo riconoscibile esponente della Quercia) del connubio magistrati-giornalisti, che rivela una non comune disponibilità a discutere anche il proprio operato. Pansa adopera la pluralità dei personaggi del suo romanzo per dare voce anche a quelle idee e sensibilità che da giornalista, ha sempre vistosamente disprezzato: ad esempio, rivista in chiave narrativa, l'ultima intervista di Guala-Pansa al Segretario della Rosa rende onore anche al giornalista che l'ha suggerita al romanziere: Craxi vi recita una parte tragica, a suo modo nobile, di una cupezza solenne. Il finale del libro, concedendo, in pagine molto commoventi, la precedenza alle ragioni individuali del cuore su quelle pubbliche della testa, lascia vincere felicemente le motivazioni più profonde e autentiche che hanno spinto qualche anno fa Pansa a intraprendere un cammino letterario che qui si deve concludere o prepararsi a una svolta radicale. Vittorio Coletti Gianni Riotta, Principe delle nuvole, Rizzoli, Milano 1997, pp. 278, Lit 28.000. Sbaldanzita, se non vilipesa, dalle storiografie alla moda, ì'hi- stoìre-bataille stenta a ritrovare un decoroso ricetto; e poco importa che i saperi più altolocati, filosofia in testa, abbiano nel frattempo adottato modelli strategici, o che il gergo massmediatico tracimi di lessemi in assetto di combattimento. Disciplina amatoriale era e disciplina marginale resta, buona al massimo come regesto di rodomontate. Gianni Riotta non la pensa così, e svolge impavidamente, e con un ammirevole gusto d'ambiente, moraleggia con sobrietà, sa riassumere le battaglie, non collude col bello stile. La storia è un dialogo, subito reale e pòi ideale, tra due militari dì opposta indole: il colonnello quarantenne Carlo Terzo, archivista sopraffino che ha dimestichezza solo con guerre di carta, e il più giovane tenente Amedeo Campari, nato per la mischia. È lui a raggiungere il fronte quando scoppia la seconda guerra mondiale, mentre la spe- dell'inattuale - soprattutto in chi pratica T'ultima ora" per mestiere -, un tema che sembra uscito da un vecchio ginnasio umbertino: hi-storia (militaris) magistrà vitae, ov-verossia esponga l'alunno, illustrandole con dovizia di esempi, le ragioni per cui le strategie di guerra soccorrono talora nella condotta di vita. E ben si fa leggere questo romanzo che non va mai fuori tema, è parco di coloriture ranza d'azione del colonnello va delusa nella chiamata, da parte di Sua Eccellenza Galeazzo Ciano, a immortalare le battaglie del presente. Disperso in Russia Campari, ridotti a malparata l'Eccellenza e la guerra, Terzo si ritrova a Palermo con la moglie amatissima, l'aristocratica russa Emma sfinita dal cancro, e un Manuale di vita strategica da concludere, pronubo suo malgrado di due adole- Luca Clerici, Il romanzo italiano del Settecento. Il caso Chiari, Marsilio, Venezia 1997, pp. 231, Lit 45.000. "Oggi, in sostanza, niente dei romanzi chiariani sembra in grado di suscitare il benché minimo interesse e coinvolgimento da parte del lettore contemporaneo": è con questa curiosa premessa che Clerici - storico della lingua e della letteratura italiana - studia intenti e struttura dei romanzi di uno dei nemici storici di Goldoni, Pietro Chiari. Chiari, gesuita bresciano vene-zianizzato, scrisse infatti - oltre alle più note commedie - molti romanzi, mescolando tradizione cavalleresca, teatro e trattatistica a materiali più popolari e più conosciuti. I suoi libri andarono a ruba, furono tradotti in altre lingue; lui li a'mpliò a ogni nuova edizione, dando loro titoli nuovi e gestendo come meglio poteva la propria popolarità. Le sue storie sono per la maggior parte storie di donne dalla nascita misteriosa, che intraprendono infinite incredibili avventure fino a recuperare l'originaria elevata posizione sociale, ed essere così pronte per matrimonio e vita adulta. I suoi personaggi non cambiano mai, i suoi romanzi sono impressionantemente uniformi e cercano di tradurre in Best seller di Sara Marconi storie principi morali espressi a priori, cercano di essere esemplari, di indagare i ragionamenti (non gli stati d'animo) dei personaggi per parlare dell'essere umano in generale. I romanzi di Chiari si fingono autobiografici: l'eroina, ormai saggia e matura, guarda al suo passato e lo racconta. Questo comporta prima di tutto che non ci sia suspense su quale sarà la conclusione della vicenda ma - semmai - soltanto su come quella conclusione verrà raggiunta: ogni elemento, ogni oggetto che comparé è funzionale alla trama, "serve" perché possa succedere quello che deve succedere. In secondo luogo comporta lo sdoppiamento della protagonista in personaggio - allora - e narratrice - ora -, con il conseguente affiancarsi del piano del commento a quello della storia. Secondo Clerici è proprio questo uno degli elementi più caratteristici della scrittura di Chiari: l'aspetto didascalico, retorico dei suoi roman- zi e l'interesse per l'interazione tra questo aspetto e la storia vera e propria sono centrali, tanto che "le grandi categorie narrative (personaggio, tempo, spazio) assumono un ruolo subalterno e una fisionomia sbiadita", non sono la cosa importante. Romanzi di questo tipo sono oggetti letterari molto diversi da quelli che noi siamo abituati a chiamare romanzi. Questo non toglie che il romanzo moderno nasca nel Settecento, che uno dei suoi aspetti più tipici sia quello della "polimorfia" (l'uso di materiali diversi, letterari ed extraletterari), che questi romanzi siano nuovi e originali e che - insomma - "il principale paladino del romanzo nell'Italia nel Settecento è dunque uno scrittore di second'ordine, Pietro Chiari". Chiari fu letto moltissimo, soprattutto da donne (alle quali la narratrice tende a rivolgersi, chiedendo solidarietà e comprensione in nome di una supposta vicinanza); da Chiari non si può prescindere - dice Clerici - se si vuole studiare la storia del romanzo italiano. L'analisi di Clerici è puntuale e riesce a incuriosire, nonostante la sua premessa. Un'interessante lezione su come hanno funzionato dei best seller e su perché oggi quegli stessi best seller risultino mortalmente noiosi; e non è poco. scenti comunisti, Fiore e Salvatore, che bevono da lui ogni dettaglio, delle campagne del passato, e mentore di un pacifista americano che nasconde l'inconfessàbile partecipazione al progetto Manhattan. La disassortita compagnia serra i ranghi nello scontro campale del libro, una sorta di Portella delle Ginestre all'incontrarlo, che vede i mafiosi "malacarne" schiantarsi sotto l'impeto dei giusti, finalmente al comando di un Terzo stillante dottrina bellica. Ma altri cozzi, questa volta senz'armi, sono in serbo per chi recita le battaglie come un breviario e ne applica con desolata sagacia la lezione alla vita: se muore Salvatore, il poeta in erba che spartisce con Terzo l'epiteto bau-delairiano di "principe delle nuvole", Fiore riuscirà a sopravvivere con la loro bimba, e il suo congedo dal colonnello ormai vedovo avverrà nella Palermo degli anni cinquanta, in un caffè, sotto gli occhi assorti (e incogniti) di un principe di Lampedusa intento all'incipit del Gattopardo. Claudia Moro Pino Corrias, Ghiaccio blu. L'assassino sepolto nel computer, Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. 158, Lit 22.000. Al giorno d'oggi un "semplice" condannato a morte non fa più notizia. Per scriverci un libro ci vuole, quanto meno, un condannato a morte "speciale". E così questo libro di Corrias racconta la storia di un condannato davvero speciale, il cui cadavere dopo l'esecuzione è stato congelato (con un congelante di colore blu, da cui il titolo), tagliato in quattro blocchi, "piallato" e fotografato strato per strato. Le fotografìe di ogni sottilissimo strato del suo corpo sono state inserite su un computer, digitalizzate, e introdotte nella Rete. Dove ogni ana-tomo-patologo, ogni medico, ogni curioso può trovarle all'indirizzo http://www.nlm.hih.gov, Joseph Paul Jernigan, condannato a morte per rapina e omicidio, è stato ucciso dallo stato del Texas il 5 agosto 1993. Jernigan aveva deciso di donare il proprio corpo alla scienza, senza sapere probabilmente con esattezza che cosa la scienza avrebbe deciso di farne. La scienza decise che ancora una cosa mancava del tutto nell'ambito della documentazione anatomica: una mappa digitalizzata completa del corpo umano. Corrias scrìve questo libro così per affrontare un paradosso: Jernigan è ormai un individuo completamente digitalizzato, pubblico, un individuo che "vive" nella Rete. Ma che ne è stato del suo passato? Nessuno sembra saperne nulla, né sembra volerne sapere nulla. E Corrias decide di indagare. Ma questa indagine su un condannato a morte "speciale" diviene un'efficace inchiesta sulla pena di morte tout court, sulla violenza di questa punizione, sulla sua ingiustizia, sulla discriminazione che attua sulle classi sociali inferiori, sui paradossi dell'America di oggi. Andrea Bosco