MAGGIO 1999 ccvexsc N. 5, PAG. 9 L'arte del pudore SILVIO PERRELLA Angelo Ferracuti Attenti al cane pp. 171, Lit 22.000 Guanda, Milano 1999 Dopo la bella sorpresa di Nafta, ho subito letto l'ultimo libro di Angelo Ferracuti. E dopo averlo letto, l'ho lasciato sedimentare fino a perderne a volte i contorni. Ma se gli aspetti d'intreccio sono pian piano svaporati, i suoni delle frasi mi sono rimasti ben impressi. La lingua che adopera Ferracuti è pacatamente prensile; delle parole si serve per distenderle in un respiro sintattico. In questo credo che sia agevolato dal luogo geografico da cui prende il volo la sua voce narrativa: le Marche. Le Marche sono innanzitutto paesaggio. Ciò che si vede, se si ha occhio per vedere, è una somma di sfumature e di proporzioni e una luce spesso radente e pacata. E anche vero, però, che a volte non si possono non vedere brutture inaspettate; allora si pensa che davvero nessun luogo d'Italia è rimasto immune dal silenzioso terremoto della bruttezza. Ferracuti non dimentica né le armonie né le disarmomie della sua piccola città: Fermo. Il suo stesso lavoro quotidiano, quello di postino, lo aiuta a procacciarsi uno sguardo ad altezza d'uomo. Ed ecco che vien fuori il ritratto di una delle tante provincie italiane e insieme le molteplici piccole crudeltà e piccinerie che le rendono simili le une alle altre. Attenti al cane è un libro di racconti intrecciati, ma quel che più conta non è l'intreccio; è piuttosto la tonalità della voce che racconta. Lo dico adesso che per scrivere queste righe ho riletto i racconti che mi erano piaciuti di più, come, ad esempio, Anatre, Troppo tardi per tutto e Magneto. Fermiamoci su quest'ultimo. Mentre Marco e sua moglie si accingono a consumare la loro cena, va via la luce. Chissà come mai, si chiedono poco dopo i due, la luce manca solo da noi. Guarda, dice l'uno all'altra, gli altri appartamenti laggiù sono tutti illuminati. L'ipotesi che sia stata la vecchia lavatrice a provocare un cortocircuito si rivela infondata. Dopo aver inutilmente telefonato all'Enel per chiedere aiuto, illuminati dalla tremolante luce delle candele, Marco e la moglie pian piano si rilassano e pensano di chiamare un amico elettricista che non vedono da tempo; almeno da quando è morto, cadendo da un balcone, il suo figlioletto di otto anni. E nel frattempo fanno all'amore. E lui Magneto, l'amico elettricista. Al termine del lavoro, Magneto passerà a casa dei suoi amici. Anche se non vuol darlo a vedere, è visibilmente provato. Da solo, mentre inutilmente cerca di trovare il guasto, dà fondo a una bottiglia di Johnny Walker. Adesso che è quasi brillo, Marco vorrebbe farlo tornare a casa. Non è più così importante risolvere il problema della luce; lo si potrà fare l'indomani. Ma Magneto non deflette, vuol a tutti i costi trovare il guasto: "Adesso 10 trovo" disse Magneto guardando il suo amico negli occhi. "A costo di fermarmi a dormire da voi". In questo racconto, Ferracuti esercita l'arte del pudore. Tutto quello che conta nei rapporti tra i personaggi è solo accennato, ma 11 lettore sente con precisione tutta la tramatura sentimentale che li lega gli uni agli altri. E si capisce come a Ferracuti stia a cuore una tradizione del racconto ita- liana che è sempre stata minoritaria e che invece curiosamente sta dando linfa ad alcuni scrittori d'oggi, fondendosi a volte con suggestioni americane, come quella di Raymond Carver. È evidente, inoltre, che in alcuni di questi racconti viene messa a frutto la lezione di uno scrittore contiguo geograficamente, il cui lavoro solo di recente ha avuto i riconoscimenti che merita: Claudio Piersanti. In questo senso è molto significativa la scelta dell'esergo posto in apertura del libro, sia per l'autore sia per quel che dice: "Non so se sia eccesso o mancanza di sensibilità, ma è un fatto che le grandi tragedie mi lasciano quasi indifferente: ci sono sottili dolori, certe situazioni e rapporti, che mi commuovono assai di più di una città distrutta dal fuoco". Sono parole di Silvio D'Arzo, tratte da Casa d'altri. Ecco, l'arte del pudore narrativo sta nello scavare dall'interno il mondo delle pulsioni sentimentali, accarezzandone i nervi più nascosti, senza mai scoprirli. Il resto è lasciato ai lettori, saranno loro a rieseguire le partiture di segni soggiacenti a ogni racconto. Umberto Saba si chiedeva, all'inizio del secolo, cosa restasse da fare ai poeti. E rispondeva che restava da fare la poesia onesta. Credo di non sbagliarmi, pensando che l'aggettivo sabiano stia molto a cuore a Ferracuti. E anche per questa ragione che da lui ci aspettiamo ancora molto. Sapienza deformatrice Giuseppe Montesano Nel corpo di Napoli pp. 274, pp. 29.000 Mondadori, Milano 1999 Giuseppe Montesano è emigrato infinite volte dal suo paese natale (Sant'Arpino, in provincia di Caserta), pur spostandosi da esso il meno possibile. Sono stati i libri a permettergli i viaggi più arditi e temerari. Egli è infatti un lettore accanito e famelico. Allo stesso tempo, però, è anche un uomo profondamente radicato nel luogo in cui è nato, nel suo humus più antico. E soprattutto da queste due ca- ratteristiche che nascono i libri scritti sinora da Montesano. Libri che rinverdiscono la ricca tradizione degli scrittori del contado. Ma il contado di oggi non è più né la verdeggiante Nofi di Domenico Rea, né la provincia addormentata di Michele Prisco; è piuttosto una sterminata e orrifica periferia, che ha il potere di lasciare ammutolito per ore Tommaso, la voce narrante che risuona nel Corpo di Napoli. Da dove nasca questo silenzio è allo stesso tempo facile e difficile da immaginarsi. Le periferie infatti sono divenute universali e tutti sanno quanto siano destabilizzanti per chiunque abbia anche una piccolissima porzione di senso estetico. In bruttezza, però, le periferie campane sono davvero imbattibili. Figuriamoci cosa deve succedere nell' animo di Tommaso e dei suoi amici, così imbevuti di Rimbaud e di Nietzsche: "Quello che non riuscivo a capire, era come proprio io, io che volevo la bellezza più di ogni altra cosa, finivo sempre nel suo contrario". A differenza dei loro genitori, Tommaso e Landrò e Morvo hanno studiato, anche se, già trentenni, si dimostrano riluttanti a laurearsi. Ma l'accumulo di letture estreme, e soprattutto il prenderle alla lettera, li distanzia abissalmente dai genitori. All'inizio del romanzo risuonano i colpi di bastone del padre di Landrò, intrecciati alla sua voce stridula che scandisce in dialetto: "A verità? 'E ppatane so' bbone cotte, è vero o no?" Questo delle "ppatane" sarà l'effi- cace refrain del libro, un po' come l'interrogativo sul presepio in Natale in casa Cupiello di De Filippo. Già con A capofitto (Sottotraccia, 1996; cfr. "L'Indice", 1996, n. 6), il suo libro d'esordio, Montesano si era rivelato uno straordinario talento satirico. Nel corpo di Napoli ha disciplinato questo suo talento, dando vita a un'opera fortemente compatta; compatta non solo strutturalmente, ma anche dal punto di vista linguistico. Questa volta ha anche fatto uso del dialetto napoletano, usato soprattutto come una spezia, e dunque comprendibile, tranne che per poche parole, anche ai non napoletani. Questo nuovo romanzo di Montesano può essere letto anche come un viaggio d'iniziazione alla realtà, di cui non conosciamo l'esito finale. Un viaggio che ha tre tappe fondamentali, costituite dalle apparizioni successive di don Sossio Sesamo, 'O Tolomeo e Gerolamo Fulcaniel-lo: un prete losco e reazionario, dai cui artigli i tre scappano presto, un ideatore di cimiteri e un misterioso sensitivo che si è messo in testa di scoprire nei sotterranei di Napoli il lume eterno scoperto dal principe di San Severo. E nell'incontro tra le farneticazioni letterarie di Tomma so, Landrò e Morvo e quelle di genere diverso (ma non esenti anche queste dalla letteratura) dei tre "maestri" che Montesano dispensa tutta la sua sapienza deformatrice, correndo però a volte qualche rischio di ripetitività. E si capisce che la sua immaginazione ha un serio fondamento antropologico: gli basta dare una piccola spinta alle osservazioni tratte dalla quotidianità ed ecco che nascono le sue figure solo in apparenza paradossali e straniate. E con esse le loro abitudini, prima fra tutte quelle legate al cibo. In questo romanzo, infatti, si mangia fino a scoppiare e c'è anzi un personaggio che diventa l'emblema stesso degli effetti del cibo sul corpo: l'immensa e felliniana Zinaida, protagonista di una novella cena di Trimalcione. E vero che Montesano i suoi personaggi li arrostisce al fuoco di un sarcasmo nero; in fondo, però, vive con loro, e anche per i loro aspetti più ributtanti prova affetto, forse perché, come lui, vogliono "evadere dalla trappola della realtà". È per questo che Nel corpo di Napoli può essere definito come un'indagine romanzescamente furibonda sullo statuto della realtà. Cos'è la realtà?' Ed è necessario lavorare per vivere? Le domande di Tommaso, lo scrittore le ascolta con attenzione, tanto che all'ilarità dominante nel primo romanzo qui è stata messa una sordina. E si ha la sensazione che scrivendo questo libro Montesano abbia fatto un rogo di molte sue illusioni giovanili, anche per la curiosità di vedere cosa succedeva dopo la combustione. Il libro che ne è nato fa pensare al cinema di Cipri e Maresco e al teatro di Leo De Be-rardinis, e arricchisce la nostra letteratura di un solido e paradossale e raro romanzo di idee. (S.P.)