DEI LIBRI DELMESEl marzo 1998 cc^tx-c n. 3, pag. 9 Dilemmi mitologici su sfondo partigiano MONICA BARDI Romana Petri Alle Case Venie pp. 220, Lit 24.000 Marsilio, Venezia 1997 "Case Venie" è il nome del borgo umbro in cui si svolge il romanzo di Romana Petri, scrittrice appartata e aliena da sperimentalismi, che ha suscitato interesse e raccolto consensi fin dalla sua prima raccolta di racconti II gambero blu (1990), e poi con i successivi 11 ritratto del disarmo (1991) e II baleniere delle montagne (1993), tutti pubblicati da Rizzoli. Se lo spazio della vicenda è circoscritto dalle colline, percorse in discesa e in salita dal passo affannoso dei suoi pochi abitanti, il tempo è quello che si stende fra il settembre del '43 e il maggio del '45: tempo di tensioni e guerra, in cui alla fuga dei tedeschi si accompagna la violenza grossolana dei gerarchi di paese. La storia della Resistenza, delineata con precisione attraverso ritratti perfetti, appare tuttavia soltanto una cornice per un romanzo complesso, in cui scelte e caratteri vengono misurati sui grandi temi classici del coraggio e della paura, della solitudine e della comprensione fra diversi. Fin dalle prime pagine si comprende che lo schema della lotta partigiana è adottato come un contesto di sperimentata tenuta narrativa: la scrittura non è in nessun modo neorealista e piuttosto cerca di ricreare uno spazio mitico - come segnalano i nomi dei personaggi: Alcina, Astorre, Aliseo, fino al cane Arduino - che fa pensare alla grande lezione della Morante. In questo senso vanno intesi l'astrattezza e la natura letteraria dei pensieri e dei discorsi, che sono tutti rivolti a risolvere il problema dell'identità (come somma di tutte le vite vissute in successione, dalla nascita alla vecchiaia) e della frattura della comunicazione fra persone care provocata dalla morte. Alla morte pensa costantemente proprio il personaggio che è al centro dell'intera vicenda, Alcina, "una donna invirilita che per natura tende al brusco": la sua paura, precocemente instillata dall'evento tragico della morte per parto della madre, viene ribadita dalla fine del padre Astorre. Con lui Alcina riesce tuttavia a riallacciare un dialogo vivo, dal momento che lo scomparso non ha trovato la pace, ha dei ripensamenti sulle sue convinzioni fasciste, vuole conoscere gli sviluppi della storia mondana: perché, a differenza di ciò che pensano comunemente gli uomini, "si muore piano, si abbandona la vita lentamente e a ognuno è dato di poter stare e non stare per riuscire a ricomporre il suo giudizio". Al padre, Alcina è unita da memorie infantili e da affinità del carattere, forte, determinato, sicuro nella distinzione fra bene e male. La madre Amarantina, innocente e sognatrice, è invece ormai "lontana lontanissima", in una condizione priva di rimpianti ed estranea agli antichi legami: il suo ritratto richiama quello del fratello di Alcina, Aliseo, continuamente perso nei suoi pensieri, chino per ore su un disegno a matita e avaro di parole. Sarà proprio lui la giovane vittima su cui si sfogherà la rabbia impotente dei fascisti: le pagine in cui viene descritta la sua esecuzione sono fra le più intense del libro, segnate da una sinistra che lo vogliono lasciare marcire in galera) o risolversi dopo la morte -secondo le parole di Astorre - in un permanere senza presente e futuro, in "un'assenza immobile dove tutto si agglutina come in un vortice". Da parte sua là spigolosa Alcina guarda al tempo storico e interiore come all'orizzonte di una scelta etica necessaria: assolto il compito di riacquistare la libertà per tutti, occorre assumersi il coraggio di cambiare, per non restare ancorati a un tipo fisso, ai dolori, ai ricordi, per non sprecare il "poco tempo che ci viene dato". La prospettiva Se gli struzzi farciti squilibrano il mercato GIORGIO PATRIZI Tommaso Ottonieri Crema acida pp. 180, Lit 22.000 Lupetti-Manni, Milano-Lecce 1997 Per comprendere in pieno le va- Le colpe adulterine del dottor K GIO FERRI Clio Pizzingrilli, Il tessitore, Quodlibet, Macerata 1997, pp. 100, Lit 18.000. Una brutta mattina (che da un certo punto di vista potrebbe anche non essere troppo brutta) un uomo si sveglia, imprevedibilmente, nudo nel gran letto di una stanza, che non sembra proprio la sua, in mezzo a due donne che hanno dormito con lui: ma lui, proprio, non se n'era accorto. Sono due femmine fellinianamente matronali, apparentemente disinibite, piuttosto volgari. Ma carnalmente, in qualche modo, attraenti. Luomo (forse un tessitore, che vorrebbe uscire per intrecciarsi con gli altri, nel mondo) si mette invano sulla difesa. Subito viene coinvolto suo malgrado in una dialettica, o assurda, vicenda matriarcale e matrimoniale. E scapolo, ma deve accettare, pur mentendo (o almeno credendo di mentire), di discolparsi di colpe maritali forse mai commesse. Ma, come se ciò non bastasse, entra nella stanza una folla frenetica, esaltata, che decisamente lo mette sotto processo senza complimenti: e, infine, la protezione sponsale gli tornerà anche utile. I suoi adultèri, le sue fughe e le conseguenti accuse muliebri non sono poi così disperanti, quanto invece le diatribe (sociali, teologiche, etiche) che si vanno esasperando all'incalzare di quella masnada crudele, un moloch individuato con un attributo unico, onnicomprensivo (e non, come una trama, distinguibile): "tutti quanti". Tutti quanti fa questo, tutti quanti dice quello, tutti quanti non concede tregua. Qualcuno potrebbe osservare che la storia, fra risvegli metamorfici e processi incomprensibili, ce l'ha già raccontata un certo dottor K, assicuratore frustrato di Praga. Tuttavia la verità scritturale è un'altra: perché se è vero "che la rivoluzione non è che il tentativo di sottrarsi alla coscienza della legge, legge che inchioda gli uomini alla colpa da espiare ininterrottamente" (come ci ricorda il protagonista di questa vicenda pur sempre ebraico-cristiana e burocratica), è anche evidente che... tutto quanto non va preso troppo sul serio, se non si vuole che tutto quanto finisca (salutarmente, per la verità) in una ridicola tragicommedia. E forse è vero, come dice Falstaff, che "tutto il mondo è burla": burla crudele, ma burla. La scrittura narrativa (meglio, contronarrativa) di Pizzingrilli fa di tutto per essere irriverente verso il serioso modello kafkiano (la cui evidenza tragica, comunque, non viene negata): plurilinguismo surreale (dal provenzale, all'yiddish, al grammelot, più o meno sassone, anglo e no), asintattismo e sfasatura temporale (tipico l'incipit: "Comincio a svegliarmi che potevano essere almeno le sette di mattina..."), paradosso dialettico, e così via. Con la messa in moto di una sorta di duchampiana macchina celibe (lo sposo messo a nudo dai suoi celibatari, anche/), dal meccanismo inarrestabile, conseguente. Biologico. E visto che si tira in ballo Wittgenstein, potremmo dire con lui: "Se abbiamo determinato arbitrariamente qualcosa, qualcos'altro deve accadere". Un (ir)racconto, questo di Pizzingrilli, per chi non ne può più delle commerciali brodaglie pseudopsicosen-timentali degli ultimi anni. sospensione e dal rallentamento del tempo; del resto proprio la riflessione sul tempo è il perno su cui ruota tutta la vicenda: conseguenza della caduta di Lucifero, può anche rimanere fermo (come afferma orgogliosamente il partigiano Bitto di fronte agli aguzzini di un'emigrazione in Argentina, nell'intendimento parenetico dell'autrice, rende completo il rito di salvazione, alludendo alla necessità di trovare una strada unica (aperta dall'amore sempre negato) dopo il difficile passaggio nel negativo della Storia. A cura di Pietro Bolognesi DICHIARAZIONI EVANGELICHE Il mondo evangelicale 1966-1996 I documenti e le dichiarazioni in cui si riconoscono gli evangelici di tutto il mondo XI VIA N0SADELLA 6 40123 - BOLOGNA EDIZIONI DEH0NIANE BOLOGNA TEL. 051/306811 FAX 051/341706 lenze di ricerca e di sperimentazione metaletteraria dell'ultima prosa (romanzo?, metaromanzo?, post-romanzo?) di Tommaso Ottonieri, occorre inserirla nella duplice prospettiva che questa sperimentazione oggi schiude; da un lato nell'itinerario creativo dello stesso Ottonieri, esordiente nel 1980 con il singolare e notevole Dalle memorie di un piccolo ipertrofico, per molti versi necessaria premessa - coraggiosa in anni di restaurazione letteraria - alla prosa magmatica di Crema acida-, così come alle poesie di Coniugativo è, per alcuni versi, debitrice la sua creatività espressiva. Dall'altro nello scenario della narrativa contemporanea, dove i testi di Ottonieri si collocano con l'originalità di un lavoro sul linguaggio e sull'intreccio che sembra andare decisamente controcorrente rispetto all'essenzialità, alla ricercata povertà, al grand-guignol debole del versante pulp o cannibale dell'attuale prosa "sperimentale". Nella prima prospettiva allora si i evidenzia la portata di un'operazione linguistica che acquista un senso preciso, non casuale né isolato, all'interno di un'area "espressivista" che testimonia una tradizione prestigiosa della nostra letteratura, quella che, attraverso le tecniche della contaminazione dei linguaggi, della distruzione dei codici istituzionali, della parodia e dell'invenzione lessicale, promuove una letteratura come critica dell'esistente e messa in scena delle sue contraddizioni. In questo senso va letta la vocazione di Ottonieri a inseguire una sua vertiginosa idea della parola come crocevia di culture, di voci, di codici, di affa-bulazioni, di ideologie, una vocazione che in Crema acida trova un'efficacia nuova proprio per la molteplicità dei piani che s'intrecciano nella neoplasia verbale. Ad apertura di libro: "Triste landa dove i bisunti putenti miravi campeggiare i frigoverre di tre impilabili formati uso pantani, addensati di condimenti residui... Fra i tremori e fèmori adolescenti in orride tenute grungie, crocchi & cachinni & tocchi (pure) di transex efemcipati, burlanti tanto...". Un simile impasto lessicale si pone come il punto di arrivo di una complessa e-sperienza neoavanguardistica e post; vi convergono il gioco delle assonanze, delle catene dei significanti, degli inusitati accostamenti lessicali, dei neologismi, insomma tutto quel repertorio di lavoro sul significante che, in un testo narrativo, produce uno straniamento di sicuro effetto ironico, nell'accezione profonda del termine, anche a costo di qualche difficoltà di lettura (a un approccio ingenuo al testo). Ma anche riguardo all'intreccio c'è da rilevare la scelta complessa di Ottonieri, rispetto all'abitudine di tanti sperimentatori che "riscoprono" la trama ma (lo notava opportunamente Cortelessa su "Linea d'Ombra") in un'accezione povera, ridotta a un'essenzialità scheletrica, che dispone in una linearità anonima voci, gesti, nomi. Tanto da far pensare che la vituperata astrattezza geometrica delle funzioni narrative della più rigida narratologia si stia ripresentando sotto specie di un intreccio da cui è allontanato qualsiasi scarto. Nel mondo postmoderno e perfino post-telematico di Ottonieri i personaggi si rincorrono in una investigazione paradossale, in relazione al misterioso ribasso degli struzzi farciti, in vendita presso una catena di supermarket, ribasso che mette in crisi i delicati equilibri del mercato globale. L'investigatrice Orfica conduce il lettore attraverso un universo galleggiante in una marmellata di merci e di parole, dove tutte le cose sono rese omogenee dalla propria natura di oggetti da consumare e da scambiare, trionfando una realtà sintetica o virtuale che non si scioglie nemmeno nel finale, dato che Crema acida di finali ne offre diversi, soluzioni da sovrapporre o da incastrare l'una sull'altra. Estrema parodia di una narrazione che, quando lo svolgimento narrativo sembra impantanarsi, agisce in realtà sui piani linguistici, evidenziando il valore dinamico di una scrittura ben consapevole delle proprie origini e del proprio presente.