MARZO 1998 N. 3, PAG. 1 1 Un giullare nel sacrario del secolo. La favola audace di Benigni ROSETTA LOY ■i^MIHljjlPiWPWs^HP^ fj ■ix-^fV" , Hflmff , 1 JRjK J|L " 3 :M ir» ., l^HUBT. JL :mmm l ■ttr m ^ ........ dS ti s IBm! pUl < : wmKm Ih ' " ì 1 . -A I /vij afc/jWf ^■pjBjjf .«■ss r 9 - - . m È possibile darsi ragione di un gatto che porta gli stivali, di un ranocchio che è invece un bellissimo principe, di una zucca che si trasforma in carrozza? Per chi entra nell'universo fiabesco sì, perché ne accetta la metafora. Così è per l'ultimo film di Benigni: una favola tragica e comica, a volte spettrale. Fin dall'inizio, quando la dolcissima Principessa vola giù da una piccionaia nelle braccia attonite e subito entusiaste di un piccolo ebreo. E Guido, cameriere in un grande albergo tutto bianco di gesso in un imprecisato luogo di villeggiatura della provincia italiana alla fine degli anni trenta. Ma Guido è anche un inventore di indovinelli (non è forse l'indovinello uno dei topoi tipici delle favole?), rivale, nell'invenzione, di un villeggiante tedesco che risponde al nome di Lessing a cui serve polli e risotti. La vita è bella è la storia sua, di Dora, la Principessa, e del loro bambino Giosuè. Ma per Guido, ebreo al momento delle leggi razziali, cameriere e poi libraio in una muffita bottega, la vita in quegli anni si presenta "La vita è bella" di Roberto Benigni con Roberto Benigni e Nicoletta Braschi, Italia 1997 tutto il contrario di bella. Invece è anche il contrario del suo contrario, perché Guido, come il ranocchio della favola, è in realtà Principe della sua Principessa, Signore dei giochi e Re degli indovinelli. Gli scenari sono di gesso e stucco, i fiori di catta, i dolci di marzapane colorato e un finto treno con sbuffi di vapore bianco porta Guido, il suo bambino e la Principessa nel Lager che sembra una quinta di teatro. Ha osato Benigni con la sua faccia stralunata e la sua parlata becera quello che sembrava impossibile osare: inoltrarsi con suole felpate, leggero e sacrilego, in uno dei massimi sacrari del nostro secolo: lo sterminio degli ebrei in Europa. La trappola è lì, a ogni passo, ma le sue mani si muovono con una delicatezza di velluto, sfiorano la lama senza farne colare una goccia di sangue e il suo corpo, che conosce alla perfezione i tempi del comico, si adatta di colpo anche a quelli del tragico mentre il suo lungo naso (o grande, o grosso, ma com'è il naso cfì Benigni?) lo guida con fiuto sicuro lungo la favola più terribile del nostro tempo. Perfino il finale più "favoloso" non potrebbe essere, con Giosuè che guida trionfante un enorme carro armato, premio per i bambini che hanno vinto la sfida della vita sulla morte. Il sole splende e la mamma lo aspetta fra i solchi giallo-verdi della primavera. Per raccontare l'irraccontabile forse non si poteva che scegliere la favola, dove le verità più terribili si nascondono dietro al lieto fine. Dietro la Felicità inossidabile della Vita. Attraverso la risata e le lacrime insegnano a diffidare del Lupo e a sconfiggere le Matrigne Cattive, l'Orco che arriva a mezzanotte. Ma anche ad amare i ranocchi dentro il cui corpaccio potrebbe nascondersi un bellissimo Principe, vittima di un incantesimo perverso. Si ride, si piange e si ride, ma si esce dal film con un macigno sul cuore perché la crudeltà ha squarciato a un tratto le quinte di cartapesta. È sbucata fuori con la sua maschera di morte nel momento che il piccolo ebreo vestito con la giacca a righe ha rincontrato nel Lager il suo andco compagno di indovinelli tedesco: è ora Lessing un potente capitano nazista, e con una mimica di gesti e mezze parole chiama Guido in disparte per parlargli lontano dagli occhi degli altri ufficiali. Tutti allora speriamo che sia la salvezza. Invece Lessing vuole solo riproporre a Guido l'ennesimo indovinello: "Grasso, grasso, brutto, brutto, tutto giallo in verità... se mi chiedi dove sono ti rispondo sono qua, qua, qua!". Niente salvezza per te, Unter-mensch, niente salvezza per il tuo bambino né per la tua Principessa. Anche la favola allora va in pezzi: non è infatti, nelle favole, la salvezza legata alla risoluzione dell'indovinello? Nel silenzio di Guido, nell'atroce delusione del piccolo clown magro e squinternato, c'è tutta la tragedia dello sterminio. La favola si è rotta e ha mostrato la sua anima di fil di ferro, la realtà è tornata prepotente in quel silenzio e in quel viso da disperazione senza ritorno. L'impatto è quasi intollerabile ma per fortuna è solo un attimo. Subito arriva la puntina sul disco della Barcarolle di Offenbach, e nel buio della notte il suono del grammofono rincuora la Principessa prigioniera in uno dei lontani blocchi del Lager. Un gesto inventato lì per lì dal buffone-giullare votato alla morte. E alla fine di quella lugubre è straordinaria cena negli alloggiamenti degli ufficiali, Guido e il suo affamato bambino sono tornati a essere due folletti stralunati in un mondo di Streghe e di Orchi. La favola ha ripreso a scorrere, il Lupo può anche mangiarsi Cappuccetto Rosso ma alla fine deve per forza arrivare il Cacciatore a tagliargli la pancia. Ne siamo sicuri (ma lo siamo poi davvero?). Non so se avete capito, La vita è bella mi ha sconcertato e scombussolato come se qualcuno mi fosse entrato in camera a mettere tutto a soqquadro. Ma mi è anche tanto piaciuto. Esito mediocre ALBERTO CAVAGLION La finzione - termine che, applicato alla letteratura concentrazionaria, può far venire i brividi - si è sempre rigenerata a contatto con l'inesprimibile. Lo sanno bene gli studiosi del romanzo storico dell'Ottocento. "Peu d'histo-riens sont aussi fidèles que ce roman-cier", diceva Victor Hugo di Walter Scott. Un giorno si potrà dire lo stesso di un romanziere, di un poeta o anche di un attore comico che recita su Auschwitz? Perché no. "L'essenza della poesia non consiste nell'invenzione dei fatti", scriveva Manzoni in una frase che sembra confezionata apposta per rassicurare lo spettatore scettico davan- ti a un'operazione come La vita è bella. Ieri il dibattito verteva su quell'amor» che è la peste del Seicento, oggi si rianima con Benigni. Bisogna fare i conti con la realtà e forse non scandalizzarsi troppo. In una cultura come la nostra, non sarebbe neanche la prima volta che - la commedia dell'arte insegni - il Comico precede il Poeta. Solo chi considera Auschwitz un'entità metafisica e fuori della Storia potrà condannare come vana un'impresa che seriamente si ponga questo obiettivo. È il risultato ottenuto, che è mediocre. Benigni e Cerami hanno scritto la loro sceneggiatura come se il dibattito sullo scrivere dopo non esistesse. Letture preliminari devono averne fatte poche. Hanno pensato di cavarsela rendendo riconoscibili agli occhi degli ex deportati le casacche dei prigionieri. Che in Italia si sia parlato poco e male della letteratura su Auschwitz vale come attenuante, ma fino a un certo punto. Georges Perec, Albert Cohen, Anne Langfus, Heinrich Boll (persino l'Eduardo De Filippo di Napoli "milionaria") è come se fossero vissuti invano. Il film, assai gradevole nella prima metà, ha il suo punto più alto nella lezione sul razzismo impartita da Benigni. Anche l'identità del protagonista è labile. Benigni osserva il crescere del razzismo fascista con un distacco che non è quello dell'ebreo assimilato sconvolto dalla misura dell'inatteso, né tanto meno è quello del clown che osserva il reale con il suo cannocchiale capovolto ma entrando nel merito dei problemi. Il distacco di Benigni è distacco e basta, anche se adesso, presentando Xinstant book einaudiano con la sceneggiatura del film dice di esser- si ispirato nientemeno che alle Scritture! Quello di Benigni è un distacco che deriva dalla superficialità con cui affronta il tema. Mano a mano che "l'importanza dei pensieri e delle cose" cresce, il film cede. Leopardi diceva che vi deve essere sempre un nesso fra "importanza delle cose" e "bellezza del dire". Qui tutto cade mano a mano che cresce l'importanza delle cose. E tutto cade per effetto di un'idea piccina, infantile: l'idea cioè che, nel Lager, si possa giocare e, se si è bravi, anche vincere. Si può ben capire come tale idea possa suonare offensiva per chi ha avuto vicino a sé bambini che nel Lager non potevano permettersi il lusso di giocare e di urlare alla fine: "Abbiamo vinto!". Gli autori di La vita è bella fanno pas- ► continua a p. 46