MARZO 1998 N. 3, PAG. 1 1 Un nuovo canone per insegnare il Novecento VITTORIO COLETTI Pubblichiamo un intervento di Vittorio Coletti sul problema del Novecento nelle scuole superiori tenuto a un corso di aggiornamento per insegnanti di italiano svoltosi a Roma l'11 e il 12 dicembre 1997. Il Novecento è un secolo ormai concluso. E dunque fuori discussione farne oggetto di studio, anche scolastico. Ma c'è il problema di come affrontarlo a scuola nella sua interezza, nella sua complessità e di come rimodulare lo studio delle altre epoche per fare congruo posto a questa più recente. Come tutti gli altri periodi storici e culturali, anche il Novecento domanda, specie in sede scolastica, di essere riconosciuto attraverso tratti specifici generali ed eventuali distinzioni interne. Forse è proprio dalla specola della lingua comune che il Novecento presenta più marcati tratti differenziali rispetto al periodo che lo precede immediatamente. È vero che molte caratteristiche (sociologiche e grammaticali) dell'italiano novecentesco sono già in gestazione nell'Ottocento: alcune, di primo piano, autorizzate dal libro più importante: i Promessi Sposi. Ma è solo nel XX secolo che l'italiano diventa una lingua effettivamente parlata, a tutti i livelli della società, in quasi tutte le regioni, con quel che questo comporta nella sua grammatica: affermazione di una lingua media con soluzioni morfosintattiche proprie dell'oralità, riduzione drastica della differenza tra scritto e parlato, ecc. Altra grande novità dell'italiano novecentesco è la perdita d'autorità del modello fiorentino (si pensi alla dialettalizzazione della pronuncia toscana, che ne ha favorito il recente successo comico). E un fenomeno che va di pari passo con la caratterizzazione multiregiona-le della lingua in seguito alla sua diffusione su tutto il territorio nazionale e a tutti i livelli sociali, con conseguente drastica riduzione del dialetto, che si presta, in compenso, a un inedito riuso poetico-me-taforico (il dialetto come lingua specializzata per la poesia è un tratto esclusivo del Novecento). Cominciando a spostarci verso il territorio della lingua letteraria, potremmo menzionare innanzitutto il cambio di autorità al vertice linguistico del paese, che ha visto, proprio col Novecento, la fine del prestigio della letteratura e il successo di altri luoghi della produzione linguistica: mass media su tutti. Ma va notata subito anche la fine delle proprietà più specifiche del linguaggio letterario, persino là dove esse avevano resistito di più, e cioè in poesia. Dal primo Novecento in poi il grafico dell'italiano letterario si muove allontanandosi o avvicinandosi (con moto spesso pendolare) non già (come in precedenza) alla lingua della norma dotta, della tradizione, ma alla lingua comune. Il punto di riferimento rispetto al quale lo scrittore novecentesco posiziona il proprio linguaggio non è più la grande lingua dei classici, ma la lingua media dei giornali, della strada, della televisione. Di qui la necessità preliminare di misurarsi, nella scuola, con l'italiano contemporaneo, la sua grammatica, le sue tendenze. L'italiano medio è entrato stabilmente nei testi letterari, che lo hanno progressivamente assorbito; e non solo, come ovvio, quelli narrativi, sempre disponibili a fotografarlo ed emularlo, ma anche quelli poetici, pronti a utilizzarne persino le più specifiche procedure sintattiche. Quando un'età è conclusa, il problema della sua interna periodiz-zazione si impone. Distinzioni e periodizzazioni sono già state proposte e documentate; hanno nomi di scuole (crepuscolarismo, vociassimo, ermetismo, neorealismo, avanguardie e neoavanguardie, ecc.), si dispongono intorno alle due guerre mondiali, a lungo centrali nella storiografia corrente. Secondo qualche studioso, ad esempio Stefano Giovanardi nella bella introduzione all'antologia dei poeti del secondo Novecento da lui curata con Maurizio Cucchi, la svolta che conta è, almeno in poesia, solo quella di metà secolo, nel secondo dopoguerra, quando si passa da un linguaggio fatto su misura del soggetto che scrive, alla disseminazione e parcellizzazione dei linguaggi altrui, dal monolin-guismo ermetico al plurilinguismo delle avanguardie e del realismo. Secondo altri (e anche secondo me), tanto in poesia quanto in prosa, la svolta avviene ancora più tardi ed è diversa. Di fatto, come ha scrit- to Enrico Testa in un recente aureo libretto (Pronomi), analogismo ermetizzante e sperimentalismo avanguardistico sono due facce dello stesso centralismo dell'io che attraversa il Novecento. Se una frattura c'è, questa si manifesta quando dal trono letterario vengono fatti scendere l'ipertrofico io del secolo, tutto emozioni e pulsioni, e la società da lui popolata, che ne riflette (anche attraverso il totalitarismo delle ideologie) le contraddizioni e le ambizioni, e al loro posto subentrano un soggetto meno egocentrico e più "mentale" e una società osservata dalle distanze cosmiche e "disumane" della natura. Calvino esplora la società come se fosse un universo naturale da leggere e l'universo naturale come se fosse la società degli uomini; l'ultimo Luzi guarda una città e ci vede pulsare la materia creata; Zanzot-to lega il bosco alla storia. Al linguaggio dell'emozione succede quello della riflessione; la letteratura più che esprimere vuole capire, più che rappresentare indagare. Ma, paradossalmente, il tentativo di capire e spiegare il mondo mette in crisi proprio il più solido mito novecentesco, quello della dicibilità totale, del linguaggio, del dominio tramite la parola. Fino a quando l'io è (crede di essere) il centro del mondo, della città, della vita, nulla può restare immune dal suo potere di nominazione. Quello che l'io (o la società, che è lo stesso) non nomina, non esiste. Un giorno, però, la cultura scopre che ciò che l'uomo può nominare è ben poca cosa; che le sue parole sono solo un brusio nell'universo; che i suoi discorsi non escono, per rumorosi che siano, dalla cappa dell'atmosfera; che silenzi siderali rispondono alle patetiche enunciazioni dell'ultimo umanesimo. Su questa faglia, il Novecento prima si spezza e poi, decisamente, finisce. Il tardo Calvino, l'ultimo Caproni, Del Giudice appartengono già al nuovo secolo letterario. Ma come fare posto al Novecento, tanto più se vogliamo studiarlo tutto, come dobbiamo, visto che ormai è finito? L'ingresso del nostro secolo nella didattica corrente potrebbe intanto essere l'occasione per ridefinire il canone letterario, potandolo da quanto (e non è poco) vi è stato inserito più per meriti storico-documentari che artistici. Ecco un primo modo per fare spazio al XX secolo. D'altra parte, buona parte del materiale espunto dalla selezione letteraria potrebbe essere recuperato in una prospettiva diversa, di storia generale (della cultura): pensiamo al barocco studiato in sede di storia dell'arte, all'Arcadia letta all'interno di una (ineludibile) storia della musica, ecc. La dimensione storica è certamente uno dei grandi valori della tradizione culturale e scolastica dell'Italia; e va difesa, contro le tentazioni americanizzanti, ma, nello studio della letteratura, sta da qualche anno (e opportunamente) perdendo prestigio la storia della letteratura col suo movimento progressivo e unidirezionale. La storia, in effetti, può essere percepita sia nel procedere di un fenomeno nel tempo che nel suo regredire dallo stadio presente alle proprie radici, ai suoi precedenti. In questo senso, si possono integrare prospettive diverse e affrontare lo studio dei fatti letterari anche per tipologie testuali o stilistiche di cui si può ricostruire il tracciato cronologico, partendo da una qualsiasi manifestazione, magari contemporanea, presa in esame. Qualcuno ha opportunamente ricordato la continia-na "funzione Gadda" come esempio di un andirivieni storico legato a soluzioni espressive particolari. Questo non significa, naturalmente, un'indiscriminata moltiplicazione di tipi testuali e quindi di storie: il ruolo istituzionale dei programmi dovrebbe, anzi, intervenire proprio a prevenire tale rischio e a rivendicare il valore pedagogico, per una collettività, di dati e prospettive comuni, condivise, nazionali. Ma, all'interno di grandi griglie generali, si potrebbe garantire una maggiore e più gratificante libertà di scelta e di percorso. L'entrata del Novecento nella scuola potrebbe, insomma, fornire l'occasione di una didattica che cerchi e motivi di volta in volta le proprie opzioni, provi più a convalidare la distribuzione della materia da essa proposta, le sue partizioni, le sue periodizzazioni, che a ripeterne altre, preconfezionate, ingessate dall'abitudine, spesso già superate dalla ricerca.