MARZO 1998 N. 3, PAG. 1 1 Questa nuova rubrica è una rassegna di recensioni e critiche. Invitiamo i lettori a collaborare segnalando articoli che si distinguono per originalità, interesse o anche assurdità. il giornalismo Un poeta suicida Chi era Paganelli? Un poeta che "entrato nella scena della vita nel 1955... volontariamente ne è uscito nel 1987" (così nel numero monografico della rivista "Istmi" che, edito dalla Biblioteca comunale di Ur-bania e a cura di Eugenio De Signo-ribus, gli è stato dedicato a dieci anni dalla morte). Oltre a una serie di contributi critici e poetici (da Franco Loi a Giampiero Neri) il volume comprende una scelta di scritti saggistici e poesie dello stesso Paganelli. Nei brevi e intensissimi anni del suo "attivismo poetico", egli seppe proporsi come punto di raccordo tra autori quali Vittorio Sereni e Franco Fortini e i giovani della propria generazione. Credo che, in patte non trascurabile, proprio a lui si deve dar merito d'esser stato forse vivace animatore e, per dir così, "esportatore", di un (non programmatico, ma di fatto) félibrige marchigiano che, sulla scia del maggior conterraneo Paolo Volponi o di quel nobile poeta che fu Franco Scataglini, proprio negli anni ottanta cominciava a presentare le sue carte e i suoi autori. (...) Riletti oggi, i suoi versi ci suonano come un alcunché di arcano, di quasi non toccabile, ma consegnato comunque a una, pur marginale qual è la nostra, storia della letteratura. Dato, e ahimè non concesso, che una storia della letteratura continui a svolgersi e non si autosopprima per vocazione (essa pure) "suicidiaria". Giovanni Giudici, ricordando i dieci anni della morte di Remo Paganelli. "Corriere della Sera", 4 febbraio 1998. Il selvaggio Bilenchi È un libretto prezioso, utile per capire l'uomo Bilenchi e le sue intense passioni. Che, dalla giovinezza alla vecchiaia, senza interruzioni o ripudi, sono state tre, come sottolinea van Straten: la politica, la scrittura, il giornalismo. Passioni non separate, ma intersecate l'una nell'altra in un amore quasi ossessivo. Era figlio, più di quanto facesse credere, della terra di Siena di cui soleva smorzare le suggestioni. Amava il Manzoni, amava soprattutto Cechov e i francesi Maupas-sant, Stendhal, ma erano importanti per lui i cronisti medievali, i mistici senesi. Era anche un rivoltoso, figlio del Selvaggio di Mino Maccari, amava i fatti della vita trasfigurata. Incontentabile nella sua laboriosità stilistica, minimizzava la sua affezione letteraria. Scriveva quando aveva qualcosa da dire, diceva. Dal 1941 al 1958, preso da altre cure, non scrisse nulla. Corrado Stajano, a proposito del volume La ghisa delle Cure e altri scritti, di Romano Bilenchi, a cura di Giorgio van Straten (Edizioni Cadmo). "Corriere della Sera", 3 febbraio 1998. Giuliano Ferrara del "Foglio", rispondendo al telefono a Michele Brambilla del "Corriere", dichiara di non essere d'accordo con Norberto Bobbio che avendo risposto a una telefonata di Marco Ventura del "Giornale" ha dichiarato che un vecchio appello di intellettuali contro Calabresi pubblicato sull'"Espresso" va giudicato alla luce del clima di quei tempi e non di questi, mentre Gad Lerner della "Stampa" dichiara sempre a Brambilla del "Corriere" che forse Norberto Bobbio, essendo anziano, non voleva dichiarare a Marco Ventura del "Giornale" proprio le cose che Marco Ventura ha poi scritto sul "Giornale" e che Michele Brambilla riporta sul "Corriere" e riferisce a Ferrara del "Foglio" di modo che Ferrara possa poi esprimere il suo disaccordo con le cose dette da Bobbio a Ventura del "Giornale" a proposito dell'appello pubblicato sull'"Espresso" nel '71, e in ogni modo Brambilla del "Corriere" decide di far notare sul "Corriere" che Deaglio di "Diario" e Briglia di "Panorama" l'anno scorso si sono dissociati dalla campagna di "Lotta continua" contro Calabresi a differenza di Bobbio che al telefono con il "Giornale" non si è dissociato dall'appello dell'"Espresso". Michele Serra dell"'Unità" vi ha presentato: "E il giornalismo, baby". Michele Serra, nella sua rubrica quotidiana "Che tempo fa". "L'Unità", 14 febbraio 1998. Realismo magico di Asturias Se uno dovesse indicare, un po' schematicamente, 0 momento d'inizio del realismo magico, la più importante corrente della letteratura ispano-americana del '900, bisognerebbe fare i nomi delle opere di Asturias e di Alejo Carpentier, un geniale scrittore cubano non molto amato da Pablo Neruda. E prima di ogni altra, queste leggende del Guatemala che avevano lasciato trasognato Valéry. Da Màr-quez a Jorge Amado, da Isabel Al-lende a Augusto Roa Batos, quasi tutti gli autori che hanno imposto al mondo la letteratura centro e sudamericana vengono di qui. È un curioso paradosso che la chiave interpretativa e in parte anche la tecnica narrativa del folklore indigeno siano d'origine europea. Attraverso il Surrealismo, che aveva assorbito a Parigi e che si adattava perfettamente alla mentalità ispanico-barocca (vedi anche Bunuel e Dali in quegli stessi anni), Asturias riuscì a maneggiare il materiale non razionale, ma altamente poetico e avvincente dei racconti e dei miti maya. E a farne la sostanza dei suoi libri, provando che il realismo magico non era solo un'espressione valida, ma la migliore possibile di una mentalità alternativa alla cultura occidentale. Finalmente uno scrittore catturava il "real maravilloso", così evidente nello splendore della natura americana e l'elemento magico di quello che sopravviveva delle antiche culture locali. Quando le Leggende vennero pubblicate, ci furono insieme sorpresa e molti riconoscimenti. Dopo quasi settantanni, per il lettore di fine secolo, assuefatto a un genere di scrittura che ha perso quasi ogni incanto perché si è trasformato in una maniera, la sorpresa non c'è più. Ma le storie dell'uomo-pa-pavero, del Maestro-mandorlo, del Nahual, lo spirito protettore incarnato in un animale, e della Tatua- na, resa invisibile da un tatuaggio, ci fanno levitare sopra il verde luccicante di una terra tropicale, circondata da vulcani, dove s'incontra il Fiume degli Aironi rosa, in un'ora chiamata "dei Gatti Bianchi"... Stefano Malatesta, recensione alla prima traduzione italiana delle Leggende del Guatemala di Miguel Angel Asturias, premio Nobel nel 1967, edite da Semar. "La Repubblica", I ° febbraio 1998. La famiglia di Pennac Come pensa che la famiglia sia cambiata in questi anni? "Credo che i due grandi suicidi europei delle guerre mondali, dove intere generazioni di figli sono state eliminate dai loro padri, abbiano fatto cambiare qualcosa nel concetto di paternità, avvicinandolo al punto di vista femminile. È del resto lo stesso Malaussène a dire che il bush australiano non è abbastanza grande per fuggire da una donna che vuole un figlio da te". "Quella di Malaussène, tuttavia -precisa -, è più di una tribù che riesce a garantire tutti quei sentimenti parafamiliari che sono l'unico antidoto all'autismo individualista che è il risvolto psicologico della globalizzazione economica che stiamo vivendo. Ed è una tribù che si allarga a tutto il quartiere, nel suo essere il luogo di un métissage irreversibile di razze e culture". "Ma Belville - conclude Pennac - col suo quotidiano mescolarsi delle voci di bambini che parlano diverse lingue e i profumi delle diverse gastronomie rappresenta l'unica speranza per l'Europa. Tanto quanto il silenzio dei cortili di certi palazzi parigini, con il loro Serate brechtiane Le pagine culturali dei principali giornali hanno ricordato, nel mese di febbraio, il centenario della nascita di Bertolt Brecht (Augusta, 10 febbraio 1898). La grande stagione brechtiana in Italia coincise con l'interpretazione che del drammaturgo tedesco diedero Giorgio Strehler e il Piccolo Teatro nel corso degli anni cinquanta e sessanta. Di questo periodo brechtiano ha offerto una rievocazione Alberto Arbasino, sulle pagine della "Repubblica": Però che belle serate (7 febbraio 1998). Ne pubblichiamo il brano iniziale. Sul caso Brecht, scatta il Nido di Memorie. I vecchi dischi a 78 giri di Lotte Lenya a Porta Portese e l'antica Opera da tre soldi di Pabst nelle cineteche. Quando l'espressionismo sembrava roba storica da ricerche in archivio, come il futurismo e il surrealismo. Però poi tutto appariva nuovo, per la prima volta, e non solo l'Epico: Wedekind e Strindberg Grosz e Dix, Camus e Sartre, il Commesso Viaggiatore e il Tram Desiderio, Stra-vinskij alla Scala, Bruckner e Bach nelle colonne sonore di Senso e di Sergio Leone (...). E grande entusiasmo milanese per l'elegante sobrietà degli spettacoli brechtiani di Strehler: rigorosa stilizzazione, solenni len- tezze da rito laico, luci bellissime, colori squisiti (quei bianchi! quei beige!) come in Già Ponti, Aulenti e Armani poi. E Prada. Con molto compiacimento per la famosa semplicità lombarda, ostentata in contrapposizione col fasto e il barocco dei pranzi e vestiti e spettacoli romani, tipo Visconti, con le toilet-tes e le pettinature vistose e niente "under-statement" in palcoscenico e in platea. L'edonismo dell'austerità mediante il ralenti. Gran bei dibattiti accesi, di tono alto, sulle idee: con una buona coscienza progressista diffusa, da cui solo un matto o un fascista avrebbe potuto dissentire. E per il grande pubblico, una massima basica: il valore di uno spettacolo è direttamente proporzionale alle attese, alla durata, alla lentezza, al costo. Nel Galileo, magari, il buon Buazzelli recitava come Salvo Randone o Camillo Pilotto nei Processi di Giovanna d'Arco; ifalsetti del vecchissimo cardinale erano gli stessi dei doppiatori di vecchini sdentati western con fisarmonica ottagonale; la brava signora ricordava tutte le mamme irlandesi che sbucciavano patate nei film di John Ford; e il Papa era puro D'Origlia-Palmi, nelle famose Vite delle Sante dorate quando il "camp" e il "kitsch" non avevano ancora un nome... divieto di giocare a pallone, è l'immagine più efficace di una rispettabile, inesorabile morte del nostro continente". Claudio Marradi, sulla conferenza stampa di Daniel Pennac, in occasione della prima del Signor Malaussène, "il manifesto", 11 gennaio 1998. L'ideologia dei romanzi Di certo nella letteratura vi è sempre qualcosa di truffaldino: la letteratura come finzione, come falsificazione della realtà. Ma a parte questo, ciascun consumatore di romanzi tende a ravvisare nel narratore che legge una propria identità, o una consonanza, se non addirittura un'ideologia. Un romanzo, stando all'interpretazione manniana di Lukàcs, è sempre uno "specchio dei tempi", noi siamo padroni di scegliere uno specchio che ci emozioni o che ci arricchisca, qualunque sia la sfibrante ricerca dello scrittore. Sergio Maldini, È un capriccio italiano opporre Pasolini a Calvino. "La Stampa", S febbraio 1998. La ruota rossa Essa avanza inesorabilmente, bruciando al suo passaggio tutto ciò che può attraversare la sua folle corsa. In quattro spessi volumi, Agosto 1914, Novembre 1916 e le prime due parti di Marzo 1917, che disegnano l'orbita di una cometa -di quelle nelle quali la credulità umana attende di leggere il segno delle rivoluzioni cosmiche - La ruota rossa, sognata fin dal 1936 dal giovane Alexandr Sol2enicyn (quando non aveva ancora di-ciott'anni), immagine del sanguinoso supplizio di cui possiede il colore, aveva condotto il lettore alla soglia d'una rinuncia suprema. È nel vagone imperiale in sosta alla stazione di Pskov, sede dello stato maggiore del fronte settentrionale, che lo zar Nicola II aveva affidato a Alexandr GuCkov e a Vasil Sol'gin l'atto d'abdicazione, che il quartier generale dell'armata russa aspettava, giovedì 15 marzo, tre quarti d'ora prima di mezzanotte. Dopo la comparsa in Occidente nel 1971 della prima versione della parte iniziale di quest'opera gigantesca - si annunciavano allora niente meno che ventimila pagine in oltre una ventina di volumi per descrivere la Rivoluzione russa dai suoi primi frutti alla nascita dell'Urss nel 1922 -, l'ampiezza eccezionale del progetto, che coniugava il sapere dello storico, il mestiere del romanziere e il dono del visionario ha fatto parlare di epopea, d'affresco, di opera documento. Sol2enicyn non evoca la storia, la vive e la fa vedere. Da negromante, da demiurgo, da cineasta, dunque, poiché in quest'opera c'è l'ultima trasformazione delle magie radicali. Philippe-Jean Catinchit, Rou-ge terreu, sul libro di Solgenitzin La ruota rossa, pubblicato in Francia da Fayard. "Le Monde des Livres", 30 gennaio 1998.