MARZO 1998 Yen it^cMt "yi\>er*y,ctcr N. 3, PAG. 7 UN LIBRO CHE MESCOLA CORPOREITÀ E PSICOLOGIA PER ELABORARE IL LUTTO DELLA SCONFITTA Autobiografìa del Sessantotto attraverso la morte Riassunto GIROLAMO IMBRUGLIA L.D.F. Marosia Castaldi Fermata km 501 pp. 134, Lit 25.000 Tranchida, Milano 1997 Remo Bodei (Cultura e vita civile, in Storia dell'Italia repubblicana, voi. Ili, tomo 2, Einaudi, 1997) ha di recente acutamente argomentato perché episodio centrale di quest'ultimo cinquantennio sia stato il '68. Per intendere come siano cresciute quelle generazioni, cosa abbiano vissuto, quali comportamenti abbiano creato o rifiutato, alla letteratura filosofica si può accostare tuttavia anche altro. Tutto il mondo dell'arte presenta difatti un serbatoio sterminato di esperienze, che in buona misura riconducono verso due domande essenziali per definire la nostra contemporaneità: in che senso la guerra mondiale l'abbia costituita segnando una cesura con la storia precedente, e in che senso proprio un fenomeno di contestazione ne sia il tratto più significativo. Vernata km 501 mi pare esserne un ottimo esempio. E un'autobiografia, fantastica al modo forse della letteratura sudamericana, ma pur vera. Marosia Castaldi ha vissuto la sua adolescenza a Napoli, città molto presente nel romanzo, dove ha frequentato la facoltà di lettere, prendendo parte ai movimenti di contestazione e militando in un gruppo, la Sinistra Universitaria, che vi ebbe ruolo preminente; poi è andata negli Stati Uniti, lì avviando un'attività artistica di pittura e di intaglio nel legno; infine, rientrata in Italia, si è stabilita a Milano, dove insegna e scrive. Questo il percorso, politico e culturale, che sostiene l'impianto dell'autobiografia, il cui elemento specifico sta però nel mettere al centro non l'itinerario di vita, ma le relazioni con la morte che, lungo quello, variamente si sono presentate. Le figure sue centrali - il padre, la madre, il fratello, un amore - sono presenti solo attraverso il filtro della perdita, della scomparsa. In tal modo, il racconto produce una singolare scissione tra la verità, che pare provenire dalla relazione con l'assenza, e la realtà, che, se priva di questa elaborazione, è inerte memoria o riproduzione. Risultano, così, due modelli di relazione con la morte. Uno, impersonato dalla madre, è il modello di chi controlla la morte, di chi impone anzi alla vita, quasi eroe tragico, la propria coscienza di dover morire. L'altro, impersonato dal padre o dal fratello, è 0 caso di chi va verso la molte per così dire trascinato dalla vita: perciò, senza coscienza. Da queste pagine emerge quindi lo spazio d'una riflessione, per adoperare il titolo d'un libro celebre e magnifico, sull'amore della vita e il senso della morte nella cultura nata dal '68. Ma a tal fine, occorre definire che tipo di individuo si formò allora. La parola simbolo fu felicità. Parola nuova, perché, sebbene impostasi nel Settecento, non faceva parte, come i termini di giustizia, libertà - o obbedienza -, del lessico politico. Nella finis Europae che vi si consumò, da un lato si frantumarono i valori del liberalismo e del marxismo, d'altro lato il totalitarismo si accampò quale sola forma politica di potenza. Il '68 fu la prima radicale presa di coscienza di questa rottura. Da qui, l'accusa che quell'individuo fosse nichilista o tradizionale, del sacrificio del presente trovarono convergenza nella formazione di una diversa individualità. Per un attimo, si ebbe una visibilità diversa della vita, in cui il mondo quotidiano si affermò con potenza, oscurando passioni tradizionalmente preponderanti quali l'attesa o il timore. Fu un senso Biologia LIDIA DE FEDERICIS tività, proprio quella vita quotidiana che il '68 aveva inteso comprendere e trasformare. Ora non vi si ritrovano che brandelli di esperienze, reminiscenze culturali spezzate, estraneità, ripetizione. L'amore della vita si fa così senso della morte e quasi oblio di quell'amore. Eppure, per mantenere fino alla fine Girolamo Imbruglia dà una lettura politica di un bel libro, Fermata km 501, in cui di politica proprio non si parla. Un flusso di sangue scorre già nella prima pagina: ma è l'emorragia che esplode nel cervello, e nel calore di Napoli, e abbatte un giovane, e segna la dispersione della famiglia e l'inizio per ciascuno di un viaggio dentro la morte. Un'immagine di fuoco e sangue, torrenti di sangue, governa il libro: ma è il sangue che versa dal cratere la montagna-donna, creando morte e vita. Nella vicenda biologica, si sa, la festa del cibo e la distruzione di esseri e corpi sono contigue e intercambiabili: e nel bere e nel mangiare tutti consumiamo "l'orrido rito della vita che passa attraverso e diventa carne e sangue" (scrive Marosia Castaldi). Non la violenza delle strategie umane, ma la maternità terribile della natura è il tema del libro; e se la lettura di Imbruglia risulta cosi forte e rivelatrice, è perché il nesso con la politica, con la novità politica che fu del sessantotto, vi è individuato appunto in una rivendicazione di felicità, in una domanda radicale di senso. Tra i molti fili conduttori che si possono seguire nel testo a molti strati di Marosia Castaldi, ne prendo ora un altro, non distante, ed è quello della femminilità, o della rappresentazione del femminile, o della femminilizzazione del mondo. Quant'è mutevole, e trasmutabile, l'immaginario! Il Vesuvio, lo "sterminator Ve-sevo", che a Leopardi appariva come un monte inaridito e maschilmente formidabile, è diventato qui una montagna, un corpo di donna che lascia scorrere umori e colori, un doppio in carne e roccia del prolifico e minaccioso (canceroso)1 corpo materno. Il radicamento biologico dell'umano, il tema profondo, prende forma in tale preminenza del femminile, che innesca catene metaforiche di accesa e paurosa vitalità. Passo a Erri De Luca - stessa generazione e stessa origine napoletana - e al suo ritratto della terrorista nel breve racconto Non desiderare la donna d'altri (vedi l'antologia Decalogo di Rizzoli). Qui, nell'economia di poche pagine, la riduzione biologica è più dura e genera un alone semantico più conturbante. Visto dall'occhio maschile, il sangue della donna si associa, automaticamente, all'idea del corpo ferito, "la faccia di carne spaccata della vita". La familiarità con il sangue si associa, fatalmente, all'idea della sporcizia del mondo di cui la donna si assume (è tenuta ad assumersi) la cura, anche nei gesti estremi e sporchi, qui assimilati, dell'uccisione e dell'aborto. La narrativa offre indizi del mutamento culturale. E si sarà capito che c'è un problema di cultura: se l'interesse antropologico per il lato scuro della vita a cui le donne sono addette, se la rivalorizzazione biologica del lato potente della vita, che è nelle loro mani, le sollevi dalla perdita d'identità o le abbassi consegnandole di nuovo a una condizione necessaria. Può capitare, a chi legge Fermata km 501, di ricordare e volersi rileggere un buon precedente del 1988, Un giorno e mezzo di Fabrizia Ra-mondino, romanzo sulle diramazioni del sessantotto e sul femminismo, e sul vissuto in Napoli, e su cibo corpo città. Invece il libro davvero dimenticato, e da rileggere, mi pare che sia II secondo sesso, manuale ovvio e sovrano dell'emancipazione da un destino (biologico e mitologico). Usci nel 1948, cinquantanni fa. Appartiene, come Simone de Beauvoir, a un altro tempo. Fu scritto per altre donne. O no? scettico. Un'accusa paradossale, ma che provenne dal fatto che, mentre il valore della politica ruota sull'attesa di un futuro migliore o ideale, quello della felicità si radica nel presente, intollerante d'ogni misticismo. La rivendicazione della felicità come orizzonte immediato di vita chiarisce anche altri aspetti di quella cultura. Innanzitutto, la dimensione comunitaria come irriducibile alla tradizionale (leninista) forma di associazione politica. Fu in questi legami di vita che si deve vedere il socialismo del '68, forse vicino più a Herzen che a Marx. Un socialismo morale, in cui si formò, per così dire, un individuo senza individualismo, nel quale la critica dell'economia politica si unì allo slancio dell'utopia. In secondo luogo, il rifiuto dell'etica del lavoro. Era dunque un'altra immagine di civiltà che allora circolò, ove il rifiuto delle gerarchie, dell'etica del lavoro, della politica della vita profondamente ateo. Se Montaigne aveva insegnato a ben morire, Vaneigem esortò, invece, a ben vivere. Poi, quell'esperienza si disperse, o perse. Da qui muove la storia di Fermata km 501. Si parte cioè dalla sconfitta di quel sogno, che si ribalta in una vita lacerata. Nel romanzo non si indicano quali semi del '68 abbiano fermentato. Perché, se importante fu il '68, come dice Bodei, importante è anche riconoscere, con la Castaldi, che il '68 fu sconfitto; e come quel movimento aveva prodotto mutamenti nella costruzione delle personalità e nella loro vita pratica, così pure lì si videro gli effetti di quella sconfitta. Le strade, come sappiamo, furono molte. Questo romanzo mira a mettere a fuoco quale sia stata la vita di una persona formatasi nella cultura del '68 e che poi, una volta sconfitto quel movimento, si è trovata dinanzi, in tutta la sua crudezza e apparente ripeti- questa lettura politica di un testo letterario, proprio in questa elaborazione dei lutti, dove certo si sente un Freud freudiano e non più rei-chiano, sembra ritrovarsi una scintilla dell'antica speranza. Come per molti l'utopia si è poi tradotta, oltre la testimonianza, dal ripiegamento all'azione, quasi molecolare, nella società, attraverso iniziative "civili", così proprio attraverso il lutto la Castaldi pare tornare a esplorare quel mondo quotidiano che, pur se attraverso il dolore, riacquista tratti di realtà e verità. Lo scenario è in una Napoli arcaica e attuale; città immaginaria, murata come una prigione, metafora del lutto senza rimedio, quando il mondo intero diventa "una stanza chiusa senza porte né finestre". La vicenda è di famiglia, in una piccola borghesia tradizionalmente matriarcale. Ci sono genitori e tre figli: Maria, Canio ed Ermanno. Tutto comincia all'improvviso con la morte inaspettata di Ermanno, il figlio giovane, ventisei anni. E prosegue con la morte, una lunga morte per cancro, della madre. Allora, in una dimensione onirica, madre e figlio si mettono in viaggio verso e su per il Vesuvio, e il viaggio iniziatico avviene come una specie di gita d'altri tempi, fuori del tempo. Prendono il tram, l'autobus, la metropolitana, il treno e infine una corriera alla misteriosa fermata del km 501.1 rimasti, la gelosa Maria e il padre e il tranquillo Canio, li accompagnano, a distanza. E in tale compresenza dei morti e dei viventi, tutti salgono attorno ai fianchi, ai gironi (parola dantesca) della montagna. Incontrano folle di turisti, tavole imbandite con funebri tovaglie bianche e abbondanza di cibi; e anfratti nascosti dove sta ammucchiata la spazzatura della vita napoletana, come transatlantici e orologi, e tedeschi e americani, e guerre d'ogni epoca, bombe a mano, arpe rotte. A turno raccontano frammenti del vissuto, sfalsando i tempi e tornando circolarmente sulle stesse circostanze. Voci narranti in prima persona. Ma, in certi capitoli in terza persona, e nel libero discorso indiretto, ha una voce e un punto di vista anche la montagna: "Tutta la città faceva riferimento alla montagna e ognuno della montagna aveva preso quello che aveva voluto e le avevano strappato brandelli intenzioni colori significati pietre lucertole crepe sotterranee. E lei stava lì a cercare di tappare i buchi, a impedire al sangue di colare rovinoso perché ancora si curava della sorte della città spogliata, della città chiusa, senza né porte né finestre". La montagna è divina, è una dea stracciona, una mamma. E la madre in carne e ossa, ora che s'avvia alla montagna, quale memoria ha di sé? "... spazzare lavare provvedere curare fasciare sfasciare prevedere preoccupare venire ansiare tornare partire curare tagliare cucire dare disporre proporre decidere nutrire accudire dare latte mani cuscini scaldare acconciare accompagnare avviare chiudere porte aprire finestre aprire le ali aprire le porte abbracciare gioire soffrire stringere forte addiare per sempre per tutta. L'eternità?". Alla fine del percorso Maria è uscita dalla famiglia: è in un'altra città, in un paesaggio più freddo, forse nell'accettazione (di vita e morte) e sempre pronta però a rimettersi in viaggio. Il libro è di genere inclassificabile. È figurativo e psicologico; transcodifica in parole una ricca materia pittorica; lavora con la psicologia del profondo.