esO-ylCrtitLC'CL' Per essere uno Stato normale Appunti di un giornalista in viaggio tra le capitali mediorientali COSIMO RISI OTTOBRE 1998 Arrigo Levi Rapporto sul Medio Oriente pp. 166, Lit 18.000 il Mulino, Bologna 1998 C'è un punto a Tel Aviv, sulla Rehov Ha'Yarkon fra lo Sheraton e l'Hilton, dove il vento sbatte le cime contro gli alberi delle barche a vela attraccate al Marina Yachting Club. Dove i giovani si riuniscono davanti al bar che suona ma-carena a tutto volume, e danzano in costume da bagno sotto il sole cocente che ti rammenta che sei a est del sud. Dove la questione mediorientale ti sembra remota, come appartenente a un mondo diverso. Senonché l'amica al mio fianco - una italoisraeliana che ha fatto alyàh, ritorno, non per sfuggire a persecuzioni ma per spinta ideale verso una terra che non è dei suoi padri e neppure forse di remoti antenati - mi invita a distinguere i giovani che prestano servizio militare da quelli che l'hanno lasciato: temporaneamente, beninteso, perché la coscrizione obbligatoria dura fino a età matura. Ebbene, i giovani in servizio attivo, specie quelli delle unità speciali dell'Idf (Israeli Defence Forces), li riconosci dal fisico possente sotto la canottiera grigio verde, i capelli a spazzola, gli occhiali a specchio, il cappellino a visiera, l'andatura indolente eppur vigile. Somigliano ai poliziotti di pattuglia lungo la spiaggia, ma questi con l'uniforme e le armi addosso, che si sporgono dal macchinone di foggia americana, con le luci allineate sul tetto e gli sportelli spalancati, e che all'altoparlante avvertono i bagnanti di non lasciare il bagaglio incustodito, ché altrimenti gli artificieri lo faranno brillare per prevenire attentati. È qui, sulla Rehov Ha'Yarkon, che affronto il Rapporto sul Medio Oriente di Arrigo Levi. Un giornalista che non ha bisogno di presentazioni, che sa perfettamente di cosa scrive e non solo per esperienza professionale: da giovane militò nell'esercito di Israele nella prima guerra di indipendenza; nel 1967 commentò per la Rai, praticamente in diretta, la guerra dei sei giorni. L'attacco del libro (la riproduzione del rapporto per la Commissione Trilaterale) mi fa temere una trattazione generica. L'ambito geografico pare troppo ampio: dal Maghreb al Golfo, all'Iran, tutto è Medio Oriente e tutto influenza apparentemente il conflitto arabo-israeliano, che rischia di perdere cosi la sua specificità. Poi il rapporto prende quota e focalizza la questione del processo di pace, Mepp (Middle East Peace Process), come usa abbreviarlo nelle comunicazio- ni diplomatiche. Il Mepp è in affanno, per non dire in stallo. Come ricorda però Shimon Peres allo stesso Levi: "Il processo di pace comunque andrà avanti". Levi aggiunge che questo è il momento delle scelte decisive per gli israeliani e per i loro vicini e per i loro amici nel mondo, Stati Uniti in testa. Il momento più difficile è stato superato quando i nemici si sono guardati in faccia e stretti la mano. Mancano gli ultimi passi, quelli che rendono irrevocabile il passaggio e realizzano "i sogni dei primi sionisti ebrei e insieme con essi quelli dei sionisti arabi". Non abbandonare la speranza è il monito della premessa, ribadito fino all'ultima pagina. Non è solo un pamphlet di passione civile, questo Rapporto-, è opera di giornalismo militante costruita a pezzi con incontri ad alto livello nelle capitali della crisi. Si comincia dal Cairo perché fu l'Egitto di Sadat a rompere per primo l'isolamento dello Stato ebraico con la pace di Camp David. L'Egitto è preoccupato, Mubarak è inquieto per avere mal riposto fiducia in Netanyahu e nel suo dichiarato desiderio di continuare lungo la via degli accordi di Oslo. Seconda tappa la Giordania, unico paese arabo ad avere pienamente normalizzato i rapporti con Israele. Anche ad Amman circola inquietudine: i palestinesi sono colà una questione di politica interna, perché di origine palestinese è la maggioranza della popolazione. E poi Damasco, Beirut, Gerusalemme, Ramallah. Fra Gaza e Cisgiordania si costruisce l'Autorità nazionale palestinese (Anp), il nucleo di quello che, nel maggio 1999, potrebbe essere lo Stato autoproclamato di Palestina. L'Anp ha i problemi tipici di institution building dei nuovi poteri: la necessità anzitutto di "rimettere ordine in casa propria" - come sostiene il ministro Ash-rawi - eliminando la corruzione, rafforzando la democrazia e le nuove istituzioni, combattendo l'autoritarismo. Insomma, puntando a essere uno Stato normale, come normale è, sotto il profilo istituzionale, lo Stato di Israele con il gioco democratico perfettamente oliato da anni di vita parlamentare e di libertà civili e politiche. Un ricordo affettuoso è dedicato a Yitzhaq Rabin, la cui tragica scomparsa ne ha reso ancora più significativa l'opera: solo un guerriero come lui poteva convincere il popolo di Israele che la pace non N. 9, PAG. 34 minaccia la sicurezza, anzi ne è garanzia se non immediata almeno futura. Di Rabin si è infatti scritto (Eli Barnavi, Une histoire moderne d'Israel) che morendo ha acquisito "una innocenza, così come i vivi la loro colpevolezza (...) si è così trasformato in oggetto di culto, circondato da una sorta di religione civile, costituitasi spontaneamente intorno a un Primo Ministro disincarnato come una icona e ormai divenuto mito nazionale". L'assassinio di Rabin non ha aperto soltanto un buco nel processo di pace, ha pure segnato una svolta preoccupante nel dibattito politico interno: è lo stesso Barnavi che nota che la morte di un ebreo per mano di un ebreo è una novità sinistra per un paese piccolo e abituato a difendersi dal pericolo esterno, giammai da quello interno. Il viaggio di Levi termina negli Stati Uniti, passando per l'Europa. Di questa, Levi rammenta con qualche scetticismo la politica di partenariato euromediterraneo: una politica "grandiosa", che in capo a una decina d'anni dovrebbe portare a una immensa area di libero scambio bicontinentale. Una strategia però insufficiente, nonostante che il Trattato di Maastricht abbia codificato la Politica estera e di sicurezza comune (Pese): l'Unione europea mette in campo l'inviato speciale Moratinos e milioni di Ecu per l'assistenza ai palestinesi come contributo al processo di pace, ma non riesce a recitare un ruolo da protagonista. Della intrinseca debolezza europea si avvedono le parti, specie quella israeliana. La soluzione, se mai soluzione verrà, è a Washington, grazie a quel particolare rapporto che lega ebrei americani, ebrei israeliani e stanze del potere americano. E possibile sostenere che Israele è il cinquantunesimo Stato dell'Unione? Certamente no, conclude Levi, perché lo Stato di Israele, nel cinquantenario della nascita, è fiero della sua autonomia e della sua peculiarità. Pur tuttavia i legami con gli Stati Uniti sono di natura speciale; basti il dato che alcuni fra i principali mediatori americani in Medio Oriente sono tradizionalmente di religione ebraica, da Henry Kissinger a Denis Ross. "Senza l'America Israele non avrebbe certamente vinto la guerra del 1967, e in verità nessuna delle guerre successive a quella del 1948". In conclusione, nel futuro prevedibile, "l'America e nessun altro può garantire ad Israele la sicurezza di sopravvivere". Di ciò sono consapevoli gli stessi palestinesi, che guardano alla mediazione americana come all'unica possibile malgrado i dubbi circa la sua effettiva imparzialità. Aspettiamo dunque l'America: nell'attesa non deponiamo la speranza. Pellerossa libici ERIC GOBETTI Angelo Del Boca, Gheddafi. Una sfida dal deserto, pp. 372, Lit 25.000, Laterza, Roma-Bari 1998. Non è certo priva di coraggio questa prima biografia in italiano di Muammar al-Ghed-dafi. Innanzitutto perché, operando un necessario ridimensionamento, nel bene e nel male, di un personaggio tanto discusso eppure così poco conosciuto, propone del leader libico una lettura scevra da pregiudizi, alla luce della quale appare ben diverso dal "pazzo di Tripoli" di molto becero giornalismo occidentale. Il libro non risente della fascinazione del personaggio, se si escludono i primi due capitoli, nei quali, trattando della giovinezza del leader, ci si basa per necessità su fonti di regime o sulle dichiarazioni dello stesso Gheddafi: emerge così una figura per certi versi mitica, circondata fin dalla prima adolescenza da un'aura di predestinazione. L'autore - di cui Laterza ha già pubblicato due volumi (1986,1988) su Gli italiani in Libia - ha composto un'opera equilibrata, molto ben documentata, scritta con uno stile scorrevole e ricca di aneddoti, alcuni francamente divertenti. La ricerca è essenzialmente basata su fonti giornalistiche - testate europee -, africane e statunitensi - e testimonianze dirette (compresa una lunga intervista a Gheddafi del novembre 1996), data la difficoltà attuale di accedere a documenti d'archivio. La mancanza di fonti non ufficiali provenienti dalla Libia conduce inoltre l'autore a concentrare tutta l'attenzione sul colonnello, al punto da sottovalutare l'esistenza di orga- ni di governo democratico o collegiali di contrasti all'interno della leadership, attribuendo in sostanza l'intera attività politica del paese al solo Gheddafi, e riducendo ogni tentativo di colpo di Stato o di ribellione al livello di "congiura". Del Boca delinea la figura di un politico cinico, ma al tempo stesso di un leader vicino al suo popolo, coerente al punto da rischiare la sua stessa vita, e anche un fine pensatore, un profondo credente, uno scrittore capace di accenti di vera poesia. Dal punto di vista politico, a un primo stadio "rivoluzionario" segue il periodo dello scontro diretto con gli Usa (per l'appoggio fornito ad alcuni gruppi terroristici), e infine il tempo delle sanzioni e dell'isolamento, con la ricerca di una soluzione attraverso una politica moderata. Ma l'autore sottolinea anche l'estrema coerenza di Gheddafi su alcune questioni: è il caso dell'eterna querelle con il nostro governo che si rifiuta di riconoscere un risarcimento alla Libia per trent'anni di occupazione, sfruttamento, repressione e guerra, di cui sarebbero state vittime centomila famiglie libiche. Risalta infine il gusto per la battuta ad effetto, il coup de théàtre, del quale Gheddafi è maestro. E se qualche volta il colonnello colpisce nel segno dimostrando non solo notevole sagacia e ironia ma anche una profonda conoscenza del mondo occidentale e dell'Italia in particolare, spesso lascia semplicemente sbigottiti. Basti pensare al messaggio inviato alla Casa Bianca con il quale salutava il neo-presidente Reagan sostenendo "che la maggioranza dei pellerossa è di origine libica"... http://www.erickson.it Ed i zi ÌZIOIH C.so Buonarroti, 13 tel. 0461/829833 38100 Trento fax 0461/829754 Erickson Richard Corriere Patrick M. McGrady Sincronizzare la personalità Autoconsapevolezza e crescita interiore 250 - L. 34.000 Michele De. Beni Prosocialità e altruismo Guida all'educazione socioaffettiva pp. 220 -L. 36.000