OTTOBRE 1998 H/V\ - ? - / / / N. 9, PAG. 4 / / - oOtfrvc cLCsL ^ve^e Il realismo politico del prigioniero Foa Pudore e ironia di un diario epistolare: le letture, i compagni, i pensieri ADRIANO SOFRI Vittorio Foa Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943 a cura di Federica Montevecchi pp. XXXVII-1 137, Lit 34.000 Einaudi, Torino 1998 Credevo di conoscere bene Vittorio Foa: abbastanza bene, insomma. Lo avevo frequentato in privato, avevo avuto a che fare con lui in pubblico. A proposito: nel 1976, ci fu una lunga diatriba sulla presentazione comune di una lista elettorale fra i gruppi a sinistra del Pei. Il mio gruppo la auspicava, altri non la volevano. Alla fine, la si accettò, a condizione che alcuni di noi personalmente non si candidassero - condizione meschina, ma che ci rallegrava: eravamo poco elettora-listi - e che i nostri candidati tenessero gli ultimi posti della lista. La quale ebbe un risultato striminzito, per demerito di tutti, e così sia. Fra i candidati ce n'erano alcuni di bandiera, che si erano impegnati a dimettersi se fossero stati eletti, cedendo il posto ai secondi. Il più prestigioso era Vittorio Foa, che fu I libri di Foa Sindacati e lotte operaie (1943-1973), Loescher, 1975 La struttura del salario, Alfani, 1976 Per una storia del movimento operaio, Einaudi, 1980 Riprendere tempo, con Pietro Marcenaro, Einaudi, 1982 La cultura della Cgil. Scritti e interventi 1950-1970, Einaudi, 1984 La Gerusalemme rimandata, Ro-semberg & Sellier, 1985 Il difficile cammino del lavoro, con Vittorio Rieser, Ediesse, 1990 Il cavallo e la torre. Riflessioni di una vita, Einaudi, 1991 Di Vittorio, con Piero Boni e Aldo Forbice, Ediesse, 1993 Il futuro in mezzo a noi, con Fiorella Farinelli, Ediesse, 1994 Il registro. Carcere politico di Civitavecchia, con Carlo Ginzburg e Aldo Natoli, Editori Riuniti, 1994 Le virtù della Repubblica, con Paul Ginsborg, Il Saggiatore, 1994 Del disordine della libertà, con Renzo Foa, Donzelli, 1995 Il sogno di una Destra normale, con Furio Colombo, Donzelli, 1995 Questo Novecento, Einaudi, 1996 eletto, e si dimise senza esitare: altri non lo fecero - anche loro senza esitare. A tutto il bene - troppo? non è mai troppo - che si dice ora di Foa, volevo aggiungere questo piccolo episodio di lealtà e disinteresse. Dunque, credevo di conoscerlo bene. Amici proprio, non dirò che fossimo. Mi viene da sorridere a ricordare ora quello che -trentanni fa, quasi! - mi piaceva meno di lui: l'impressione di un eccesso di politicismo, di un gusto da intenditore dei meccanismi e delle "leggi" della politica, che mi sembrava un po' troppo scettico, an- che se non cinico. Allora, la politica e i suoi meccanismi noi li disprezzavamo. (Fu poi imbarazzante, infatti, trovarsi a contrattare primi e ultimi della lista). Ora che ho ripensato a questa diffidenza da nuovi arrivati verso un Foa che mi sembrava concedere troppo alle lezioni della politica (e della storia), mi ricordo anche della prima volta che lo incontrai. Dev'essere stato il 1963, ero andato a Milano, alla Camera del Lavoro - pressocché di fronte al Tribunale, guarda com'è piccolo il mondo - per una qualche riunione sul contratto dei metalmeccanici; Foa era segretario del sindacato, e aveva scritto sul primo numero dei "Quaderni Rossi": un bell'articolo, ma si capiva che, al momento di decidere se stare dentro o fuori, lui sarebbe rimasto dentro. Ero con un giovane che lo conosceva, ci incontrammo sulle scale. Foa finì ap- pena di rispondere al saluto del mio amico, che già lo prendeva sottobraccio e gli chiedeva con un'aria urgente, e quasi drammatica: "Hai visto Otto e mezzo? Che ne pensi?" Ci rimasi male: una fatuità del genere, la mattina dei miei primi metalmeccanici. Ora ho letto, in una lettera dal carcere di Foa dell'ot- tobre 1937: "Datemi spesso notizie di Anna e chiedetele se è andata a teatro o al cinema e se ha visto qualcuno dei grandi films francesi che stan facendo rumore nel mondo". Tutto questo mi serve adesso a ridere un po' di me, ma anche a regolare l'impressione forte che mi hanno fatto queste Lettere della giovinezza. Un'impressione tale da persuadermi che lo conoscevo davvero poco, Foa (benché abbia letto anche i suoi libri, che si sono significativamente infittiti in questi anni), e farmi immaginare che lui stesso debba essersi un po' scoper- to e sorpreso di sé, a rileggere quegli otto anni buttati in scrittura. Un'impressione tale da suggerire l'idea irriguardosa che l'età adulta, e matura, risulti dopotutto, nelle vite longeve, una lunga ma mortificata parentesi a paragone del disinteresse versatile di giovinezza e vecchiaia. Il Foa di oggi sembra assai somiglian- te a quello della galera, e meno a quello adulto e maturo che credevo di aver conosciuto abbastanza. C'è nella galera una sospensione del tempo utile e un'attesa indefinita che vi ributta indietro - a un'adolescenza, quasi. Il Foa che entra in carcere nel 1935 non è più un ragazzo, è un'avvocato, ha una professione avviata. Un venticinquenne di allora è un uomo fatto. (Piero Gobetti era morto prima di compiere i 25 anni). Nel 1943, quando uscirà, avrà già 33 anni. Lettere della giovinezza, dunque, ma più esattamente di una sua protrazione e di un suo rinnova- mento, imposto dal carcere: la vita si interrompe, e toma alla casella in cui bisogna ancora decidere di tutto. Una cosa sola è decisa: più che un impegno politico in senso stretto, è un impegno di dignità civile, preso una volta per tutte. Ma il resto è azzerato e riaperto. Qualunque cosa debba venire, e chissà quando (che non sia presto, il prigioniero lo ha capito subito), si tratta di prepararsi. Di ricominciare dai verbi irregolari greci. Di far ginnastica. Di leggere, pensare: liberamente. Come, appunto, chi non sappia ancora quale sarà poi la sua strada. Come un liceale. Le lettere di Foa sono il diario straordinario di questa lunga, libera e geniale preparazione. Straordinaria è la decisione stessa di trasferire con tanta costanza un diario nelle lettere ai genitori (e, più rare, ai fratelli), gli unici coi quali fosse autorizzata la corrispondenza, con rigidi limiti di frequenza e di censura. Foa usa i suoi destinatari per trascrivere pensieri e appunti di lettura, che altrimenti gli sono vietati (è la parte ingente del libro che la rapidità dei recensori mi fa sospettare saltata, ma è molto interessante - la suggerirei, appunto, agli studenti di liceo e università: provate per esempio col compendio su Sorel e la teoria dello sciopero generale, alle pagine 299-301), e anche, evidentemente, per tenere un suo personale diario, senza che mai ne venga spenta o falsata la cordialità e vivacità della comunicazione coi suoi e del lessico famigliare. Questa pubblicazione, tanto rinviata, è prima di tutto un atto di devozione filiale, come nella dedica e nella bellissima introduzione: "lo li pensavo e li penso sempre, mio padre e mia madre: parlottavano fra loro in dialetto piemontese, il discorso è sempre sulle bambine lontane o su qualcuno da aiutare". Straordinario è l'epistolario anche per questo: in confronto con altri, pure notevoli (fra i pochi che conosco, quello di Ernesto Rossi, compagno prezioso dello stesso Foa, e di tredici anni più anziano, cui manca dunque la giovinezza). Il confronto che chiunque farà è con Antonio Gramsci, a me carissimo, lui e i suoi scritti. Le Lettere dal carcere di Gramsci possono restare staccate dai Quaderni, i quali hanno, pur nella frammentarietà dovuta a forza di cose e libertà d'intelligenza, un orientamento ben diversamente definito e governato che non le letture e i pensieri di Foa, i quali viceversa sono sempre intrecciati con la conversazione personale e le osservazioni sull'attualità - ricchissime: come sulla persecuzione antisemita, che in quegli anni monta. Anche nelle letture di Foa c'è un programma, imposto soprattutto dai più rigorosi e anziani suoi compagni: e imperniato, per impulso principale di Ernesto Rossi, sullo studio accanito e devoto dell'economia, materia d'obbligo per gli apprendisti di politica fino a poco fa (poi, è stata una grande liberazione). L'economia prometteva, più di ogni altra disciplina, di interpretare il mondo, e addirittura di governarlo: illusione costata let- ► Vivere il carcere BIANCA GUIDETTI SERRA Coprono 1113 pagine a stampa le 498 lettere (qualche altra andò perduta) che Vittorio Foa ha inviato dal carcere ai famigliari. A soppesare il volume si potrebbe pensare: "un mattone!". Meno brutalmente chiedersi: che cosa mai aveva, da scrivere un giovane chiuso tra quattro mura, talvolta solo o con un paio di compagni: intelligenti, simpatici, affini per idee, ma sempre gli stessi, per anni! Che cosa mai aveva da scrivere privo di strumenti d'informazione, con letture faticosamente conquistate attraverso le burocratiche "domandine", con gli argomenti condizionati alla situazione familiare pena la "censura" che inesorabile cancellava il non consentito. Censura cui si aggiungeva l'"autocensura", cioè tutto ciò che volutamente lo scrivente taceva per ragioni di principio. Pur condizionate da queste varie barriere e malgrado l'inevitabile uniformità di alcuni argomenti, queste lettere sono tutte da leggere: dalla prima, del 17 magno 1935, all'ultima, del 18 agosto 1943. E da quell'insieme", infatti, che ci viene un messaggio di etica politica, valido al tempo, ma che può raggiungere oggi le nuove generazioni. Sono numerosi, peraltro, gli aspetti d'interesse. A me, in queste poche righe, piace privilegiare quello che mi sembra il più significativo. Si tratta del modo con cui il carcere-pena viene vissuto. Intanto mai un lamento (anche se la salute non sempre soccorre, ad esempio, e le deprivazioni sono tante). Il linguaggio è sempre sereno, consapevole, pervaso di ironia. Scrive il 29 febbraio 1936 subito dopo la condanna: "La mia mentalità giuridica non riesce in alcun modo a giustificare la sentenza che sotto ogni aspetto di diritto e di fatto è errata; per quel che mi riguarda modestia impone che io riconosca di non avere meritato in alcun modo la particolare qualifica di cui hanno voluto gratificarmi". Si riferisce alla pena aggravata perché considerato un dirigente torinese di Giustizia e libertà. E incoraggiando i genitori: "Saranno molto meno di quindici gli anni che passerò in carcere: ne ho l'incrollabile certezza. Perciò state tranquilli come io sono". E, ancora: "Ho fatto un ottimo viaggio, in uno scompartimento piccolo piccolo per me solo, ché in due non ci si sarebbe stati", scrive il 7 giugno 1935 a seguito del trasferimento a Roma. L'accenno rievoca i particolari scompartimenti per detenuti "in traduzione", vere e proprie bare, oggi scomparsi. Fra gli aspetti del modo di vivere il carcere colpisce, tra gli altri, la determinazione allo studio, tenacemente perseguita, non senza ragione. "Studiavamo per capire il mondo, essere all'altezza dei compiti futuri", scrive Foa nella presentazione. Ma anche questa attività trovava ostacoli. Non era consentito avere carta per appunti. Per questo, spesso, la lettera ai famigliari si interrompeva: "E adesso tollerate qualche appunto". E seguivano, nel pur già limitato spazio disponibile (tutto in un solo foglio!), le annotazioni sugli argomenti più vari e complessi studiati. Una riprova della volontà di vivere quell'esperienza non casuale di privazione della libertà con la volontà di essere comunque presente e partecipe alla realtà sociale. Partendo magari dall'esame di problemi del passato. Ai genitori il 28 maggio 193 7: "Vi esorto a leggere un bel libro 'L'affare Dreyfus' [di] Bruno Revel (...) L'impressione dominante che resta, a libro finito, è quella della bellezza di una lotta in cui gli ideali sonanti di verità e di giustizia (...) presero corpo e forma in una concreta battaglia politica". Le citazioni possibili sul modo di vivere il carcere potrebbero continuare. Forse alcune battute delle ultime lettere le concludono esemplarmente: "5 agosto '43 (...) Sono convinto che presto usciremo (anche se finora nemmeno uno è uscito); ma potete stare tranquilli che piuttosto che fare qualche minimo atto che incrini il mio passato, starò qui". E l'8 agosto: "Preferisco restare piuttosto che fruire di benefici personali". Si ricordi, sono passati più di 8 anni e 3 mesi dall'arresto... Ho insistito sul modo di vivere il carcere. Quale il messaggio che ne deriva specie alle nuove generazioni? Penso si possa cogliere in un pensiero di Vico che, scrive Foa nella presentazione al volume, lo ha accompagnato per un lungo pezzo della sua giovinezza: "Paiono traversie e sono opportunità".