Hi OTTOBRE 1998 Gramsci. Nessuno dei due, per ovvie ragioni, poteva aver letto l'altro. L'obiettivo degli squadristi e in genere dei fascisti (oltre che della borghesia italiana) - questo è il nucleo della proposta storiografica -erano state non tanto le attività degli impotenti massimalisti, contro le quali sarebbero stati sufficienti i carabinieri, quanto le istituzioni e le cittadelle proletarie del socialismo riformista, contro le quali si era rivelato necessario l'illegalismo sowersivistico e "criminale" delle camicie nere. L'antibolscevismo era stata l'ideologia mobilitante. L'antiriformismo la pratica concreta e la meta finale. Un tema, questo, che si ritrova in La scuola dei dittatori, del 1938, un dialogo brillantissimo (e divertentissimo), presente in questa raccolta, sugli Stati totalitari. Vi prevalgono di gran lunga le penetranti analisi del fascismo e del nazismo, e troppo poche sono purtroppo le notazioni sul regime bol-scevico-staliniano, a proposito del quale Silone è in debito nei confronti del gran libro su Stalin di Souvarine (1935). Esplicitamente viene tuttavia sostenuto che il concetto di totalitarismo è utilizzato come strumento utile a comparare le dittature contemporanee. Non si può ahimè concludere una recensione a Silone senza un cenno alla questione, dalla stampa ("L'Espresso" e il "Corriere della Sera" sopra tutti) pubblicizzatis-sima, della collaborazione con la polizia fascista negli anni 1928-30, vale a dire dopo l'arresto - con sevizie - del fratello Romolo Tranquilli (morto in un carcere fascista nel 1932). Tale questione, con lodevole buon gusto, è lasciata ai margini da Falcetto. Nel frattempo è però uscito il saggio di Dario Biocca anticipato dai giornali, Ignazio Silone e la polizia politica, in "Nuova storia contemporanea" (II, 3, maggio-giugno 1998, pp. 67-90). I documenti, a differenza di quel che alcuni hanno suggerito (tra cui Ottorino Gurgo e Francesco de Core, Silone. L'avventura di un uomo libero, Marsilio, Venezia 1998, pp. 460, Lit 19.000), parrebbero, allo stato attuale, autentici. Il ricattato Silone fu dunque un informatore della polizia. Non dal 1919 (!), o dal 1926, come suggerisce Biocca. Ma dal 1928, quando cioè il cagionevole e amatissimo Romoletto era nelle mani della polizia con l'imputazione, poi caduta, di strage (i 18 morti del 1928 alla fiera di Milano). Non sembra tuttavia, dai documenti prodotti, che Silone abbia rivelato gran che ai fascisti. Quanto alla relazione dell'ambasciatore sovietico a Roma, così apologetica del regime mussoli-niano, pare improbabile e inventata di sana pianta da Silone. Gli Stati totalitari, e il fascista per primo, invitano del resto alla doppiezza. Non sempre oltre tutto la polizia dice la verità. E non sempre, anzi!, si dice la verità alla polizia. E tuttavia i dossier, anche se equivoci, restano negli archivi. La feticizzazione documentolatrica degli archivi di polizia non è peraltro un buon metodo, com'è noto, e già in passato ha giocato qualche scherzo. La figura di Silone, da quest'ulteriore prova, e dal non elegantissimo voyeurismo mediatico prodotto, esce certo più drammatica. Più malinconica. Ma non meno apprezzabile. Modernismo moderato GIANNI TURCHETTA Giorgio Bassani Opere a cura di Roberto Cotroneo pp. 1856, Lit 85.000 Mondadori, Milano 1998 A parte la famosa o famigerata polemica sulle Liale, per la quale forse è giunta l'ora di un parcheggio più tranquillo e sorridente negli accoglienti giardini di folklore storico-letterario, l'opera di Bassani ci chiede con ogni probabilità non dico di rivoluzionare, ma certo almeno di riorientare abbastanza decisamente alcune delle categorie interpretative con cui si ha l'abitudine di leggere la parabola del ventesimo secolo letterario nostrano: il quale secolo - sarà bene non dimenticarlo - sta ormai per lasciare finalmente il posto al ventunesimo. Di fronte al, chiamiamolo co- sue opere narrative in una sorta di Libro unico, livellando - come ha ben scritto Alberto Limentani (da non confondersi con l'Edgardo Limentani protagonista di L'airone) - "in un assetto sincronico quanto i singoli testi recano in sé di peculiare, per fase di composizione e caratteri tecnici". Lo dimostra, in particolare, la "riscrittura totale" (di cui ha parlato Baldelli in alcuni imprescindibili saggi di variantistica bassaniana) delle Storie ferraresi, e in particolare del racconto Lida Mantovani, di cui opportunamente i curatori ci propongono le tre versioni principali. Non si dice niente di originale se si sottolinea come l'uscita di un volume dei "Meridiani" costituisca in qualche misura sempre una "notizia" per il dibattito culturale, dal momento che la collana mondado-riana ha ormai da tempo assunto i connotati di collana di classici par excellence dell'editoria italiana. Ma questo accade in misura specialissima per gli autori italiani di questo secolo, per i quali l'approdo al Meridiano rappresenta una canonizzazione tout court. È proprio qui però che cominciano i problemi, ovvero il bello, visto che non tutti gli autori per così dire "meridianizzati" sono pacificamente accettati nel canone. Nonostante la sua ormai quieta presenza nei manuali di storia letteraria, direi che Giorgio Bassani pare davvero fatto apposta per suscitare discussioni, si spera, di un certo respiro: anche al di là del giudizio che si voglia dare sulla sua opera. sì, "caso Bassani", la critica dovrebbe con ogni probabilità rimettere a fuoco l'antitesi, troppo spesso maneggiata con eccessiva disinvoltura, fra "modernismo" e "tradizionalismo": un'antitesi che, quando si parla di narrativa, tende abbastanza sistematicamente a rivestire le mascherine, tutto sommato un po' logore quando non comiche, del signor "Ottocento" contro il signor "Novecento", nientemeno! Ben venga dunque questa edizione delle Opere di Bassani: un'autentica opera omnia, curata da Roberto Cotroneo, autore dell'ampia introduzione, intelligentemente discorsiva, nonché di una minuziosissima cronologia; ma anche da Paola Italia, cui si devono la ricca bibliografia e l'apparato filologico. Credo che il discorso su Bassani debba partire dalla profonda unità, perseguita per decenni con cura quasi ossessiva, che salda le D'altra parte l'insistenza dell'autore sull'unità del proprio lavoro di scrittore va di pari passo con una complessiva refrattarietà, o fors'anche scarsa inclinazione, ad assumerne piena consapevolezza teorica. A cominciare dalla frequente e mai approfondita insistenza, in sede di poetica, sulla ricerca della "poesia". Un termine che, crocianamente, è anzitutto sinonimo di "valore": ma che rivela un certo modo di concepire la natura del testo letterario. Un modo, sia detto subito e per sgombrare il campo da ogni malinteso, pienamente novecentesco, "moderno" nel senso del modernismo letterario: con buona pace della predilezione più volte espressa da Bassani per i modelli narrativi ottocenteschi; una predilezione peraltro troppe volte semplicisticamente impugnata dalla critica ostile come prova a carico del conservatorismo e del patetismo elegiaco N. 9, PAG. 11 dell'autore. Laddove, sì, Bassani mostra trasparentemente di guardare a Stendhal e a Tolstoj, a Melville e, com'è naturale, a Manzoni; ma allo stesso tempo dissimula, non senza intenzioni polemiche, altri suoi punti di riferimento, a ben guardare non meno evidenti: a cominciare da Proust, per proseguire con James e con Joyce, almeno quello dei Dubliners (le cui epifanie costituiscono il modello per l'esordio, non lo si dimentichi, dell'altra supposta Liala, cioè di Cassola), se non addirittura con Virginia Woolf. Sarebbe bene peraltro non dimenticare come Bassani costruisca strutture narrative assai poco "romanzesche", con intrecci deboli e pochissimi eventi: un'altra caratteristica flagrantemente novecentesca. Anche sul piano strettamente quantitativo non è certo un caso ch'egli superi con molta fatica la dimensione del racconto, sia pure ampio e magari dilatato fino ai limiti del romanzo breve. Né che l'unico suo vero romanzo, cioè II giardino dei Finzi-Contini, sia costruito attorno a pochi e minimi eventi: un amore abortito, quello del narratore; un amore congetturale, quello di Malnate (che suscita nel narratore una gelosia pressoché postuma, e a bassissima tensione emotiva). Mentre tutte le tragedie vere, non solo quelle della Shoah, ma anche la morte di cancro del fratello di Micòl, Alberto, sono confinate nei fuori scena del prologo e dell'epilogo: con esiti che oggi appaiono marcatamente anti-patetici, proprio all'opposto di ogni possibile "lialismo". Quasi direi che il paradigma del narratore bassaniano sia contenuto, come in una derisoria ma efficacissima mise-en-abìme, nella testimonianza giudiziaria del paralitico e voyeur farmacista Pino Barilari, protagonista immobile di Una notte del '43: il quale, chiamato a raccontare davanti a un tribunale i particolari di un'efferata strage fascista, alla quale ha certamente assistito, dichiarerà soltanto "dormivo". Così ancora è opportuno insistere, come fa Cotroneo, sulla ricca cultura figurativa, insieme classica e novecentesca, dello scrittore. Nonché su certe altre sue ben percepibili ascendenze letterarie, fra "Solaria" e la "Nouvelle Revue Frangaise": ciò che di nuovo dovrebbe far riflettere sul modernismo sostanziale, anche se moderato, dalle sue scelte narrative. Ma forse la chiave di accesso migliore per entrare nell'universo di Bassani è la sua ossessione della morte. Si può persino dire che, nel suo complesso, Il romanzo di Ferrara è anzitutto, e forse soprattutto, un colossale esorcismo contro la morte: un esorcismo durato tutta una vita. È come se la scrittura di Bassani trovasse 0 proprio fondamento in una fiducia tanto consapevolmente paradossale quanto assoluta nella reversibilità della morte: una reversibilità che solo la letteratura è in grado di mettere in atto: "Il passato non è morto (...), non muore mai. Si allontana, bensì: ad ogni istante. Recuperare il passato dunque è possibile. Bisogna, tuttavia, se proprio si ha voglia di recuperarlo, percorrere una specie di corridoio ad ogni istante più lungo. Laggiù, in fondo al remoto, soleggiato punto di convergenza delle nere pareti del corridoio, sta la