GIUGNO 1998 N. 6, PAG. 6 Un terzo spazio tra identità e potere LILIANA ELLENA Nazione e narrazione a cura di Homi Bhabha introd. di Mariella Pandolfì ed. ong. 1990 trad. dall'inglese di Antonio Perri pp. 518, Lit 66.000 Meltemi, Roma 1997 La questione postcoloniale. Cieli comuni, orizzonti diversi a cura di lan Chambers e Lidia Curii pp. 320, Lit 35.000 Liguori, Napoli 1997 "Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, / ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell'olandese, del negro e dell'inglese, / sono nessuno, o sono una nazione". I versi di Derek Walcott rimbalzano nelle voci e nei corpi che abitano le metropoli occidentali, con le continue contaminazioni tra lingue e dialetti in cui l'appropriazione di un codice è sempre accompagnata dalla sua ibridazione. La produzione letteraria nata da questi spostamenti è il terreno sul quale è andato misurandosi, tra gli altri, lo studioso indiano-inglese Homi Bhabha, nel tentativo di interpretare e dare visibilità alle forme di soggettività e di resistenza emergenti dall'orizzonte postcoloniale. Un lavoro orientato dallo sforzo di disegnare le geografie di un incontro tra culture spesso violento che, nelle ex colonie come nell'Occidente postindustriale, "dà luogo a strategie politiche e discorsive in cui l'aggiunge-re-a non significa sommare, ma serve a turbare il calcolo del potere e della conoscenza". Pratiche che generano ciò che questo autore indica come "terzo spazio", luogo culturale e politico in cui l'opposizione tra potere coloniale e autenticità originaria non è semplicemente invertita o modificata, bensì dislocata in qualcosa che contesta i termini e i territori di entrambe. Esempio fortemente simbolico di terzo spazio sono i "rumorosi" marciapiedi delle degradate città post-coloniali africane di cui parla Alessandro Triulzi nel saggio La città postcoloniale come testo (nel volume curato da Chambers e Curti), dove "disegni murali e brusio della strada si alleano in un'alleanza anti-istituzionale (...) I nuovi testi dell'oralità urbana non sono in realtà testi di opposizione, né propongono avvicendamenti di potere, esigono tuttavia il riconoscimento della propria esistenza, e dunque richiamano il confronto politico". Se le quattro sezioni di questo libro offrono una rassegna dei principali filoni di ricerca, la raccolta di saggi curata da Homi Bhabha segue un percorso più specifico. Bhabha, lui stesso migrante, forzando il pensiero di Freud, Lacan e Derrida, arriva a parlare dalle periferie del mondo occidentale, e rileg- gendo criticamente i lavori di Franz Fanon e Edward Said, focalizza via via la sua attenzione sulla natura intrinsecamente instabile delle opposizioni binarie costruite dal discorso coloniale: Oriente/Occidente, nativo/emigrante, colonizzato/colonizzatore, bianco/nero. Contro le derive essenzialistiche del multicul- turalismo, per Bhabha la differenza culturale non presuppone una primordiale o fissa identità, né offre la possibilità di viaggiare indietro nel tempo, ma pone piuttosto la questione di come interpretare la giustapposizione di tempi dentro la cultura presente. Nei vari contributi tale temporalità stratificata è posta in relazione a un oggetto specifico: la forma nazione, individuata come "una tra le più importanti strutture di ambivalenza ideologica nell'ambito della modernità". Tuttavia non troveremo in questo libro un'analisi di tipo storico-politico, ma piuttosto una pluralità di approcci che si muovono tra l'analisi testuale, la critica letteraria e l'antropologia. Ad aprire questo campo di ricerca è stata l'ormai classica interpretazione di Benedict Anderson, che ha evidenziato come la forma di temporalità che fonda la struttura simbolica della nazione come "co- munità immaginata" sia la medesima che sottende la nascita del moderno romanzo realista. Homi Bhabha spinge oltre questa posizione per interrogare i modi in cui si articola la narrazione nazionale, nel tempo vuoto che si apre tra un'identità storica, dispiegata nella realtà sociale transitoria, e un'appartenenza originaria, che affonda le sue radici in un tempo mitico e arcaico. I diversi interventi che costituiscono il libro si situano quindi all'interno del progetto, ricostruito dal curatore nell'introduzione, di alimentare una tensione tra contributi diversi che "adottassero le in- tuizioni delle teorie post-struttura-liste della coscienza narrativa (...) al fine di evocare il margine di ambivalenza dello spazio-nazione". Che tipo di relazione c'è dunque tra storia e terzo spazio? Rifacendosi ad Eric Hobsbawm, Bhabha individua nella seconda metà del XIX secolo la fase culminante dell'evoluzione della nazione moderna, che si caratterizza come uno dei momenti di maggiore migrazione di massa in Occidente e dispiegamento dell'espansione coloniale in Oriente. È in tale orizzonte che la nascita della nazione "colma il vuoto lasciato dallo sradicamento di comunità e gruppi parentali, trasformando quella perdita con il linguaggio della metafora". La raccolta di saggi si apre significativamente con il testo di Ernest Renan Che cos'è una nazione?, per disegnare un percorso che, partendo dagli studi sul nazionalismo in- terni alla sociologia e alla storia, arriva ad attraversare queste tematiche con un approccio poststruttu-ralista al campo dei cultural studies. Itinerario che, privilegiando il dato narrativo, non si limita a prestare attenzione ai linguaggi e alle modalità narrative della nazione, ma tenta di alterare lo stesso oggetto concettuale. Argomento di molti saggi è la problematicità del rapporto tra un supposto canone e le letterature considerate non egemoni. Lo spazio della cultura nazionale non è unitario e coeso, né può essere visto semplicemente come altro in relazione a ciò che è al di fuori di esso. È Geoffrey Benning-ton a ricordare che la frontiera è bifronte: le frontiere non solo chiudono la nazione verso l'interno, ma simultaneamente la aprono verso l'esterno. Per avere un nome, un confine e una storia che venga raccontata al suo centro la nazione dev'essere essenzialmente imperfetta, abitata cioè internamente dalla differenza. L'identità della nazione è quindi resa problematica dalla percezione dei suoi margini come zona di oscillazione: "I popoli coloniali, postcoloniali, migranti, minoranze, genti erranti (...) sono il segno di un confine in continuo movimento che sposta le frontiere della nazione moderna". Una prospettiva in cui lo spazio non può essere liquidato come entità inerte che esiste prima e oltre la storia. Non è un vettore passivo che il tempo occupa e in cui sedimenta se stesso, ma piuttosto il terreno mobile e conflittuale che frammenta e disloca la linearità temporale (Dissemi-Nazioni è il titolo del saggio finale di Homi Bhabha). La problematizzazione dello spazio come categoria mobile e stratificata è certo una delle direzioni di ricerca più interessanti dei saggi qui raccolti. Ove si delinea una prospettiva che sembra offrire un'alternativa al dilemma, tutto interno alla tradizione liberale, tra appartenenza e assimilazione. Poiché la costruzione dell'identità non è mai un atto originario e olistico, bensì sempre un processo di slittamento e proiezione, non si tratta di rivendicare, con un capovolgimento, la centralità delle periferie postcoloniali. Tentare di liberarsi dall'oppressione facendo appello alla propria identità oppositiva non fa che raddoppiarla. Su questo punto è particolarmente convincente la critica che l'australiana Suneja Gunew muove all'idea di una letteratura multiculturale. Privilegiare il passato e il luogo delle origini come ciò che fornisce autonomia culturale normalizza le soggettività potenzialmente sovversive cristallizzandole all'interno di un discorso multiculturale che può rivelarsi esso stesso una gabbia. Il tentativo di piegare le categorie interpretative e di forzare gli statuti disciplinari per aprire un varco alle voci postcoloniali produce aggiustamenti, ridefinizioni, invenzioni linguistiche. Non si tratta solo di una tendenza all'au-toreferenzialità di certa critica poststrutturalista, è come se la scrittura portasse il segno dello sforzo di pensiero. A levigare le asperità della scrittura di Homi Bhabha contribuisce nel volume edito da Meltemi l'ottima traduzione di Antonio Perri, che spinge la lingua italiana a seguire il gioco di montaggio e smontaggio linguistico, di evocazioni e rimandi che la lingua inglese veicola più agilmente. Il cortocircuito che viene a determinarsi fra traduzione culturale e linguaggio scientifico è messo efficacemente a fuoco nella nota del traduttore, che esplicita le proprie scelte e opzioni nel dare corpo a una "lingua più vasta". A mag gior ragione quindi ci si dispiace dei numerosi refusi. L'indicazione degli anni di pubblicazione dei diversi saggi ne avrebbe senza dubbio facilitato la contestualizzazione in un dibattito i cui riferimenti sono in Italia difficilmente reperibili, ma la puntuale introduzione di Mirella Pandolfi traccia un ponte tra il lettore italiano e il testo inglese. Mentre da un lato vengono ricostruite le coordinate del dibattito angloamericano, dall'altro vengono suggerite connessioni e affinità tra il progetto politico culturale di Homi Bhabha e aree della ricerca italiana, non solo quelle più facilmente individuabili, come nel caso dell'etnocentrismo critico di Ernesto De Martino, ma anche quelle potenziali, come nel caso di una rilettura di Gramsci che avviene oggi con punte di forte originalità fuori dai nostri confini. La pubblicazione di queste due raccolte di saggi ci induce a sperare in una meno episodica e più tempestiva attenzione dell'editoria italiana per questo settore di studi. Magari in una prossima traduzione italiana dei testi, ad esempio, di Paul Gilroy, beli hooks, Gayatri Spivak, disponibili finora solo in raccolte di saggi e su riviste. La parola che non si dice NORMAN GOBETTI bell hooks. Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, a cura di Maria Nadotti, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 160, Lit 32.000. A distanza di quasi vent'anni dalla pubblicazione del suo primo libro fAin't I a Woman: Black Women and Feminism, 1981), esce per la prima volta in Italia una raccolta di saggi della teorica e scrittrice africana-americana e femminista bell hooks. Nei dieci testi riuniti in questa antologia, tratti da alcuni dei suoi libri più recenti, bell hooks si interroga sul complesso articolarsi delle agende politiche del femminismo e del movimento dei neri e sull'intersecarsi delle rappresentazioni culturali della razza con quelle del sesso. Prendendo spunto indifferentemente da fatti di cronaca e film, video musicali e avvenimenti quotidiani, libri e ricordi, trasmissioni televisive e servizi fotografici, bell hooks descrive sempre lo stesso meccanismo: da un lato il manifestarsi della "pervasiva politica suprematista bianca", sessista e razzista, dall'altro i tentativi di resistenza e opposizione delle donne nere. Leggendo ora questi testi tradotti, non mi stupisco del ritardo con cui bell hooks viene pubblicata in Italia. È difficile infatti, scorrendo le sue pagine, superare il senso di profonda estraneità trasmesso dal linguaggio e dal procedere dell'argomentazione. Abituale nell'ambito della critica culturale statunitense, la compresenza di uno stile quasi parlato, concreto e ben fondato sull'esperienza personale (la nonna, le sorelle, gli amici, la casa) e di un vocabolario spesso astratto e carico di connotazioni poco esportabili lascia, una volta tradotto in italiano e allontanato dal contesto originario, il senso di qualcosa di straniero e un po' ostico. È difficile inoltre lasciarsi trascinare da una strategia discorsiva che ossessivamente si avvita su se stessa, tornando all'infinito sugli stessi luoghi teorici - il razzismo, il sessismo, le catene, i padroni, la resistenza, l'opposizione - e liquidando senza tanti complimenti questioni complesse e ambigue (in primo luogo quella dell'articolazione tra desiderio e potere). D'altronde le stesse questioni affrontate sono lontanissime dalle abitudini mentali italiane. Soprattutto, si sente estraneo il problema della razza. Parlando dell'alterità, siamo soliti interrogarci sulle differenze culturali, religiose, etniche, oppure sulle discriminazioni sociali ed economiche, ma il colore della pelle non è mai il punto focale, non è da lì che facciamo passare il confine tra noi e gli altri. Anzi, "razza" ci sembra una brutta parola, che è preferibile non utilizzare, che abbiamo rimosso con gran disinvoltura. È in questo che il libro di bell hooks ci riguarda. In un paese in cui le "coppie miste" non sono più una rarità e un gran numero di uomini bianchi ha l'abitudine di comprare le prestazioni sessuali di donne nere, Elogio del margine ci ricorda che "la razza conta"; un'affermazione che però, per essere presa sul serio e non solo contemplata come un curioso esotismo, mi sembra richiedere un lavoro di traduzione e interlocuzione ben più problematico di quello intrapreso finora.