L'editoriale di gennaio, Questioni di gusto, ha provocato questa risposta del lettore Giuliano Sozi, che pubblichiamo volentieri. L'editoriale di Alberto Papuzzi Questioni di gusto somiglia a una fisarmonica, il cui soffietto s'allenta e si condensa alternativamente: in posizione allentata riflette sull'evoluzione storica del gusto, con esempi (il secondo dei quali potrebbe definirsi una barzelletta sulla professoressa svitata); in posizione condensata punta sulla distinzione teorica tra il concetto di "cultura" (definita "comprensione dei linguaggi delle varie epoche, compresa la nostra") e il concetto di "gusto" (non definito, in verità). La sonata che ne scaturisce dovrebbe giustificare la recensione di Morino sul prodotto industriale mondadoriano di cui si è parlato, ma va a toppare sulla frase storica "Questo è l'inghippo" che, mi sia concesso il ristoro di un "volemose bene" universale, intendo esteso non solo a "Giornali di classe" e alla morte di "Terza pagina", ma anche alle altre sottintese malefatte del midcult. La frase più importante del direttore resta però quella in cui afferma che nell'opera in questione si specchiano "aspetti significativi" di "un'immagine del mondo". Mi sbaglio o viene tirata in ballo addirittura la Weltanschauung? Ho molta stima per Papuzzi (ho letto, tra l'altro, con piacere e profitto la sua Autobiografia di Norberto Bobbio, che ho anche recensito, qui in Umbria). Ma perché trascina me e il mio compagno di sventura (Leandro Piantini, altro contestatore di Morino) su un terreno sconfinato e ubiquo che non abbiamo avuto l'intenzione di esplorare? Noi abbiamo solo voluto dire (vero, Leandro?) che quella roba là non è letteratura: è spazzatura e non merita recensioni e giustificazioni solenni, come non le meritano "Presto che è tardi" di Ezio Greggio e le varie fantozzate e io-speriamo-che-me-la-cavo dei furbi di destra di sinistra e di centro. Lasciamo volentieri agli studiosi di antropologia l'esame di quel fiume di carta. A noi interessano le opere e le recensioni intelligenti. Dateci queste, per favore, tenendo presente che cultura non significa solo "comprensione dei linguaggi", ma anche al- tre cose, compresa la "creazione" dei lin-guaggi. Grazie. Innanzi tutto ringrazio per la stima. In secondo luogo ho l'impressione che si fraintenda, per eccesso, quanto ho scritto, forse maldestramente. In fondo volevo soltanto dire (a proposito della polemica sui programmi di Radiotre più che del fastidio per la recensione di Morino) che talvolta dietro un'idea di cultura si nasconde una questione di gusto. Probabilmente non mi sono fatto capire e me ne scuso. A parte ciò, continuo a pensare che Versace e il resto siano un'immagine della società in cui viviamo, ci piaccia o meno (Weltanschauung a parte). Il lettore Sozi dice, però, che la rappresentazione di tale aspetto della società è spazzatura quando è fatta dalla signora Marina Ripa di Meana, mentre (probabilmente) è letteratura quando è affidata alla penna di Tom Wolfe e Truman Capote, è spazzatura quando se ne occupano i fratelli Vanzina mentre (probabilmente) è arte quando la interpreta Woody Alien. Come non sentirsi dalla sua parte. Ma ciò deve precludere la possibilità di prendere in esame anche i testi diciamo volgari, se questi sono significativi di fenomeni, comportamenti, mode, eccetera? Personalmente ritengo che la funzione dell'intervento critico vada al di là dell'oggetto della critica. Ma non voglio spingermi su questo terreno talmente accidentato, sul quale mi muoverei a disagio. Mettiamola così: se Morino mi propone un'altra lettura intelligente di un testo assai commerciale continuerò a difendere questo spazio, sempre che i lettori, soprattutto quelli attenti come il signor Sozi, me lo permettano. Lettere Scuola. Da chi possono venire "buone notizie dalla scuola"? A nessuno fra i potenziali lettori del libro, sia che tifino Berlinguer sia che non tifino per lui, verrebbe in mente di rispondere "dal ministro", e men che meno "dal ministero". O "dalla politica". Le buone notizie, specie sulla scuola, non si aspettano dalle istituzioni. Per tanti versi è grave. Possono venire soltanto dagli insegnanti che lavorano giorno dopo giorno fra i banchi e gli studenti. E una constatazione strana, ma sa di vero. Per anni, i libri sulla scuola hanno fatto il tirassegno sulle istituzioni. E giustamente. L'implicito era che chi tiene in piedi la baracca della scuola sono gli insegnanti. Ma è sempre stato il non-detto: istituzionalmente gli insegnanti non c'erano, e di loro non si doveva parlare. Dentro la scuola (succedeva e) succede un fatto altrettanto strano: gli insegnanti non parlano di sé, ma delle istituzioni, dalle quali naturalmente non aspettano niente di buono. I loro disagi sono istituzionali, strutturali. Parlare di sé, del gusto o della noia del proprio mestiere, non sembra conveniente. Conclusione. Se queste note si trasformano in sillogismi ingenui e sgangherati, viene fuori che: le istituzioni sono la causa dei mali della scuola; le istituzioni sono niente; i mali della scuola non esistono. Oppure: la scuola non è gli insegnanti; le istituzioni sono ammalate; la scuola è ammalata. Resta il fatto che, quando si parla della scuola, non si riesce mai a mettere a fuoco un tema e a individuare un soggetto. Per questo, forse, dal momento che con le parole non si arriva a prendere il centro, la scuola non cambia. L'ultimo paradosso di questi ultimi anni è che l'impalcatura ministerial-istituzionale si sta smantellando motu proprio', si parlerà ancora della scuola? Adriano Colombo, nel numero di dicembre, recensendo il libro, ha mosso ai curatori il seguente rilievo: ma perché, nel conto, non hanno messo le istituzioni? e quel che il ministro sta facendo? Il rilievo è legittimo, ma il merito del libro è proprio di parlare degli insegnanti, e soprattutto di farli parlare. Mi è sembrato un modo pulito per discutere della scuola senza sipari e veline. Basta scorrere l'indice per scoprire che non si tratta di uno dei soliti libri di scuola: i titoli sono decisamente fuorvianti rispetto alla consuetudine. Tutti, e non è questione di caldo o di freddo, di connotazione o di furbi- zia: sono titoli sotto i quali si vedono degli io che parlano di sé, di sentimenti, di passioni, di emozioni, di fatica. Mi è sembrato un modo corretto per cominciare a parlare di scuola come di qualcosa di vero. E la premessa per parlare di istituzioni senza correre il pericolo di perdersi nei fumi del nulla. Valter Deon, Feltre (Bl) Non basta avere una bella storia da raccontare. Oltre la bella storia bisogna avere anche il modo di raccontarla. Gli e le insegnanti che amano il loro lavoro e lo sanno fare, a chi e come raccontano le loro storie? È il problema che solleva Adriano Colombo nella sua bella recensione di Buone notizie dalla scuola (Pratiche, 1998), attribuendoci una debolezza politica. Più testimonianza che proposta - dice -e aggiunge: una posizione perché sia politica si deve interessare del quadro generale. La prima obiezione, a rigore, non è esatta: c'è un libro che nasce da un convegno e da altri incontri; lo stesso libro contiene un vasto indirizzario di associazioni, comunità, riviste: fatti evidenti, da cui si può indovinare la fitta trama di rapporti che sta dietro - e fa - l'autoriforma. Il problema allora qual è? È che tutto questo non viene riconosciuto come politico, casomai pre-politico o impolitico. Inve- ce chi ha scritto il libro pensa che sia un altro cammino politico. Buone notizie nasce da una pratica politica che il movimento delle donne conosce molto bene, che è stata uno dei punti forti delle donne fin dagli anni settanta. Io - e come me le altre voci che compongono il testo - sto a scuola e osservo da vicino cosa capita e ciò che mi succede in prima persona, compresi anche gli effetti di "tutto ciò che mi sta intorno", e parlo da questo luogo che è il mio. Mi riprendo la mia soggettività e lascio al legislatore la sua parte e la sua responsabilità; gli lascio anche la sua capacità o incapacità di ascoltare le parti vive della società. La politica per me non coincide con l'identificarsi con la parte del legislatore e/o col formulare un progetto generale alternativo. Il problema allora è un altro. Fino a un decennio fa c'era un certo sistema di mediazioni che faceva da supporto alla partecipazione dei singoli alla politica generale. Proposte di legge, opposizione, movimenti dal basso, potere e contropotere facevano parte di uno schema riconoscibile e riconosciuto e producevano senso nelle singole teste (anche nella mia). Ora questo schema si è irrimediabilmente consunto e c'è altro, vengono avanti delle forme molto soggettive e contestuali che sono politiche e diventa impor- tante il simbolico. Dico per inciso che il femminismo degli anni settanta, che già si muoveva in questo modo, ha provocato spostamenti interessanti, ha influenzato più di una legge -sul diritto di famiglia, sull'aborto - con il suo esserci soggettivamente nella società. Attualmente il venir meno del precedente tessuto di interpretazione - "la vecchia politica" come dice Colombo - non è in tutto compensato dall'irruzione della soggettività. Questo, sì, crea veramente 0 pericolo che rimaniamo chiuse(i) nelle nostre aule, che lì tutto cominci e finisca. Su questo stiamo continuando a ragionare - e per febbraio abbiamo organizzato un altro incontro nazionale - perché la soluzione è tutta da inventare. Vita Cosentino, Milano Errata corrige. L'albero genealogico della famiglia Wagner pubblicato a pagina 21 del numero di gennaio non è tratto dal libro di Gottfried Wagner, ma da quello di Wolfgang Wagner, Una vita perBayreuth. Per errore della tipografia, le testatine delle pagine 15 e 34,22 e 27,28 e 29 sono risultate invertite. e-mail: lindice@tin.it