William Burroughs Checca ed. orig. 1985 trad. dall'inglese di Katia Bagnoli pp. 126, Lit 22.000 Adelphi, Milano 1998 APRILE 1999 Un viaggio impossibile alla ricerca dell'amore STEFANO MANFERLOTTI |dei libri del mese| nes. Più volte Burroughs sottolinea questo disprezzo, che del resto è reciproco, se è vero che anche un santo bevitore come Lee si lascia andare a notazioni schiettamente razziste: "Io vengo nel tuo piccolo paese di merda e spendo i miei bei dollari americani e che succede? Vengo insultato sulla pubblica strada". Ma non si tratta nemmeno della fin troppo vexata quaestio del rapporto fra gli Stati Uniti e i meno fortunati paesi delle due Americhe. Burroughs non intende volare così in alto. Lo impedirebbero la sua stessa poetica, che nega le grandi sintesi, e il convincimento, che in Checca viene addirittura gridato, che le città moderne altro non siano che delle Merdaville (come dice Lee) più o meno estese, dove è bene circolare (come fa Lee) celando sempre sotto i vestiti una pistola. Denise Levertov Oltre la fine e altre poesie a cura di Liliana Casati pp. 158, Lit 28.000 Le Lettere, Firenze 1998 Nata in Inghilterra nel 1923 da padre ebreo russo divenuto pastore e propagandista anglicano, naturalizzata americana nel 1947, autrice di una ventina di volumi di poesie e prose, scomparsa nel dicembre 1997, Denise Levertov è una poetessa che ha sempre avuto un vasto pubblico e con esso ha dialogato nelle sue raccolte, invitandolo (per citare alcuni dei suoi titoli, 1957-1992) a vivere "qui e ora", a "gustare e vedere", a guardare "con gli occhi dietro alla testa", a "liberare la polvere", "riapprendere l'alfabeto", "vivere nella foresta", accendere "candele in Babilonia", per imbarcarsi infine sul "treno della sera". Poetessa della natura orfica, delle intermittenze del sentimento femminile, negli anni sessan-ta-settanta sbandò in una poesia di mera perorazione politica, che comunque proseguiva una costante tendenza predicatoria, evidentemente derivatale dal padre e acuita dall'idealismo americano. La sua poesia appartiene dunque alla storia di un'epoca, quasi come un diario di donna dai rapidi e intensi in- namoramenti, di rado sfiorata dall'autocritica e dall'umorismo (che non mancano in altri predicatori, Whitman o Pound). Il meglio di Levertov fu presentato in Italia in La scala di Giacobbe e altre poesie, a cura di Mary de Rachewiltz e Aldo Tagliaferri, raccolta uscita nella collana mondadoriana "Lo specchio" nel 1968 e purtroppo mai ristampata. La presente scelta minima riguarda soprattutto le poesie successive al 1980, dove Levertov continua il dialogo pubblico con se stessa, con qualche bel momento. In ultimo abitava a Seattle, una sorta di guru cristiana affacciata su un paesaggio di monti e laghi, un paesaggio come sempre moralizzato: "Che pazienza hanno una collina, una pianura, / una striscia di bosco che sta immobile, e il lento cadere della pioggia grigia..." (per citare una poesia forse inedita che mi spedì nel luglio 1997). Massimo Bacigalupo ^ N. 4, PAG. 8 Victor Sawdon Pritchett Amore cieco ed. orig. 1969 trad. dall'inglese di Paolo Dilonardo pp. 74, Lit 10.000 Adelphi, Milano 1998 A detta di Burroughs, che evoca e commenta l'evento in una delle prime pagine del libro, la sua vocazione di scrittore avrebbe una data di nascita precisa, il settembre del 1951, allorché - reso incosciente dalla droga - uccise con un colpo di pistola la moglie Joan. Compresi allora - sanziona l'autore - che dovevo "scrivere la mia via d'uscita". La letteratura come atto penitenziale, quindi, come psicoterapia, come pratica esoreistica. Può ben essere che le cose stiano così, ma mai come nel caso di Burroughs il privato, almeno questo privato, sembra avere una ricaduta irrilevante nell'opera, attraversata da altre tensioni, che coincidono con le contraddizioni degli Stati Uniti a partire dagli anni cinquanta, sovrapposte alle azioni ora ardimentose, ora velleitarie, ora patetiche di una gioventù irrisolta. E poiché il mondo esterno, sia pure uscito di sesto, si dimostra ogni volta più forte di qualsiasi ansia di salvezza, il movimento di questi giovani, tutti, dai beatnik a salire (o a scendere), si trasforma presto nel moto senza speranza di una falena che gira vorticosamente attorno a un fuoco, prima che questo la attiri e la bruci. Il viaggio impossibile, tanto all'interno che all'esterno della coscienza, è anche il disegno portante di Checca, che Burroughs scrisse negli anni cinquanta, diede alle stampe nel 1985, e che ora Adelphi presenta al lettore italiano nell'impeccabile traduzione di Katia Bagnoli. Qui il protagonista Lee, solitario y final, tossicodipendente senza pentimenti, omosessuale senza complessi, va nientemeno che alla ricerca dell'amore. Vorrebbe trovarlo nel giovane Merton, ma già il primo incontro adombra una sconfitta inevitabile: "Una faccia equivoca, molto giovane, per bene e infantile, che allo stesso tempo sembrava truccata". Fra il passionale Lee e un Allerton "freddo e scivoloso" nascerà una relazione effimera, che il protagonista vivrà fra momenti di gioia e spasmi di dolore. Riuscirà solo a coinvolgerlo nella ricerca dello Ya-ge, la droga perfetta, che permette a chi la usi di controllare la mente altrui, quindi di piegare al proprio volere quel mondo così nemico di cui prima si discuteva. Ma anche il viaggio alla conquista di questo graal dei visionari fallirà. Alla fine del viaggio, nelle mani e nel cuore di Lee non resterà nulla. Come già avveniva nel più noto La scimmia sulla schiena ( 1953 ; Rizzoli, 1976), anche in Checca le valenze simboliche del testo appaiono, quindi, subito chiare. Può essere un limite, ma, se nel leggere si tralasciano la storia fra Lee e Merton e la poco perigliosa ricerca dei- Chi segue le novità della narrativa, in anni recenti avrà incontrato, in materia di non vedenti, l'eccelsa allegoria di Saramago, Cecità (1995; Einaudi, 1996; cfr. "L'Indice", 1996, n. 9), e il bellissimo racconto Cattedrale di Raymond CarVèr (1983; Mondadori, 1996), il Cechov americano: cui ora si può aggiungere Amore cieco, uno dei piccoli capolavori di V.S. Pritchett (1900-1997), spesso considerato il Cechov inglese. Anche se - bisogna dirlo - le milleduecento e passa pagine delle Complete Collected Stories (1990) sono lungi dall'esaurire la produzione di Pritchett, che comprende un volume anche più imponente di Complete Collected Essays ("il nostro miglior critico letterario", l'ha definito Anthony Burgess), cinque romanzi, svariati libri di viaggio, biografie (di Turgenev, Balzac e, giustamente, Cechov), e due volumi di autobiografia. Se, come ha scritto Eric Hobsbawn, il Novecento è stato un secolo breve, per Sir Victor è invece durato quasi cento anni, spingendosi ben entro la decima decade; né il titolo d'una nuova, ampia antologia della sua opera - The Pritchett Century (1997) - potrebbe essere più legittimo... Insomma, grazie all'Adelphi, che ci ha tradotto qualcosa di suo prima del Duemila! Ora, che l'amore sia cieco, o per lo meno abbia gli occhi bendati, non è una gran scoperta: è una verità emblematica, la sanno anche i proverbi e le canzonette. E ie ballate. Non a caso, Pritchett in un'occasione ha paragonato l'arte del racconto a quella di comporre una ballata: suggerendone, credo, l'origine popolare, che affonda le radici nella cultura dell'oralità; col conseguente utilizzo di riprese e ritornelli, che scandiscono lo svolgimento della storia, conservandone tutto il realismo anche se - e forse proprio perché - la restituiscono così stilizzata. Ed effettivamente la delicata e tuttavia robusta commedia di Amore cieco gioca sull'abile manipolazione di tre motivi ricorrenti: quello della vista (e il suo contrario, la cecità appunto), quello del corpo, cioè della materia contro la mente (uno dei personaggi è un improbabile guaritore, non indegno della penna di Dickens: un omone che, a dispetto dei suoi cento chili, "gravemente" afferma di non credere "nell'esistenza del corpo materiale"...), e infine il motivo della gelosia. E anche l'intreccio vero e proprio, che ha una sua complessità e varie-gatezza da romanzo (ed è tipico di Pritchett: un canovaccio generoso, di cui alla fine si lascia solo l'essenziale), non disdegna tuttavia le mosse più semplici, quasi da comica del muto: così, prima che amor vincit omniao quasi, sia Mr Armitage il cieco, sia Mrs Johnson, che è "i suoi occhi" (ma per nulla al mondo vorrebbe essere vista...), devono entrambi inciampare e finire in piscina, con gran costernazione della servitù... con una grazia e un'umanità a tratti anche chapliniane. Francesco Rognoni lo Yage, emergeranno i veri meriti del libro, che coincidono coi momenti in cui i troppo prevedibili protagonisti vengono messi - diciamo così - da parte anche dall'autore, e a campeggiare sulla pagina è l'ambiente in cui essi si aggirano: un Messico, un Panama e un Ecuador intravisti dal basso, terre di ba- belica miseria, immerse in uno squallore sempre uguale. Se all'esterno Città del Messico appare gravata da un cielo di un azzurro "crudo, minaccioso, spietato", gli interni della città, sede di "bordelli leggendari", appaiono ancor meno rassicuranti: "Un odore di birra versata, gabinetti intasati e immondizia fermentata aleggiava nel locale come una fitta nebbia e sfiatava sulla strada attraverso le porte a vento strette e scomode. Un televisore fuori uso per metà del tempo che emetteva orribili squittii gutturali dava l'ultimo tocco di sgradevolezza". Mo stesso modo, Quito non ricorda in nulla i magnifici opuscoli delle agenzie turistiche: vi stagna un freddo polare, che gela anche i pensieri. Insomma, una natura ostile. E ostili sono anche gli abitanti, che a dispetto dei loro dollari (quanto a danaro, Lee non se la passa troppo male) vedono nei randagi americani altrettanti cabro-