FEBBRAIO 1998 N. 2, PAG. 12 Scritto e parlato di Giorgio Bertone Enrico Testa, Lo stile sempli- ce, Einaudi, Torino 1997, pp. 264, hit 38.000. Se in un romanzo uso la parola "mela" per designare quel frutto, la distanza che separa il segno lin- guistico (la parola) dalla cosa è tan- to evidente quanto abissale: per bravo che sia a descrivere la mela, questa, sulla pagina scritta, non è fatta che di parole, e mai e poi mai potrò, per maggior effetto di realtà, spiaccicarla sul foglio. Ma se metto in bocca a un personaggio un discorso diretto più o meno va- riamente virgolettato (o, alla mo- dernissima, senza virgolette: ma quanti modi!), mettiamo un "Là c'è la Provvidenza" o un '"Ho det- to che non voglio e non voglio', urlò Cosimo Piovasco di Rondò e respinse il piatto di lumache", quelle parole coincidono ■ esatta- mente con la realtà della cosa: le parole concrete reali pronunciate da un uomo. Si può obiettare che nessun uomo nella storia pronun- ciò in realtà quelle frasi. Ma certa- mente, all'interno della finzione letteraria, le parole tra virgolette costituiscono una sorta di trapian- to e collage ("taglia e incolla") da quella realtà virtuale che vien pat- tuita col lettore, sulla pagina. Insomma: è opinione scientifica oggi corrente che il discorso diret- to e le varie forme di indiretto (con cui i più recenti romanzieri gioca- no a rimpiattino) sia il punto di maggiore convergenza tra l'univer- so testuale e il mondo referenziale. A tanto è arrivata la noncuranza o la sfiducia sulle possibilità da parte dell'uomo contemporaneo di at- tingimento del reale e riferimento alla vita concreta della tribù, a tan- to è arrivata - per contrappeso - la sua sensibilità per il linguaggio, ro- vello e mito insieme di una moder- nità disposta a sezionare con chi- rurgia al laser la pagina per quanto è spessa in sottdissime stratigrafie. Non solo da una temperie del genere nasce il libro di Enrico Te- sta. E non è certo un caso se questo lavoro è stato salutato e ampia- mente discusso da linguisti studio- si di letteratura come Gian Luigi Beccaria, Maria Corti o Pier Vin- cenzo Mengaldo. Si tratta infatti, senza troppi forse, del libro più importante sulla lingua del roman- zo italiano da Manzoni a oggi. Non bisogna farsi ingannare dal titolo, che espone "lo stde semplice" in opposizione, come spiega la parte introduttiva, a quello "espressioni- stico" e sembra così voler indivi- duare solo un certo tipo di roman- zi (Levi e Calvino, per intenderci inizialmente). Sotto la rubrica "sti- le semplice" alberga di fatto tutta la maggiore narrativa italiana, con l'eccezione significativa del solo Gadda, la pertinenza delle cui ope- re al romanzo era già stata, per al- tro, messa in dubbio dal suo stesso più illustre sponsor, Gianfranco Contini. Lo stde semplice è dunque "la semplicità espressiva (...) intesa co- me adozione di una lingua narrati- va media e per quanto possibde uniforme"; è una lingua transitiva, capace di mettere in contatto- di- screto le opposte polarità dello scritto e del parlato, è la lingua, per intenderci, dei Promessi Sposi. Manzoni aveva mobilitato tutte le procedure linguistiche per cattu- rare nello scritto l'orale, senza uscire dai binari di un monolingui- smo ideologicamente e storica- mente necessario, privo di scarti e incrinature. La storia successiva del romanzo vien traguardata qua- le storia del periodico e faticoso rinnovarsi di quel progetto, d cui buon esito è a lungo e ripetuta- mente ostacolato dada forte carat- terizzazione dialettale dell'orale (il parlato, come si sa, risuona nella società in dialetto fino a Novecen- to avanzato) e dalle tentazioni let- terarie e vocabolaristiche della scrittura. Nella mappa disegnata da Testa si scorge il diagramma della narra- tiva ottocentesca oscillare tra que- sti due poli e incontrare difficoltà soprattutto nell'approdo al parlato senza l'ingombro della zavorra dei dialetti e dei regionalismi troppo esibiti. Solo con Verga (Testa met- te a tacere una volta per tutte la vulgata critica che vuole l'autore dei Malavoglia come campione del regionalismo linguistico) l'italiano uncina con sicurezza d parlato, at- tenuando la dialettalità a favore dell'oralità e delle sue tipiche strutture sintattiche (d che poliva- lente, l'arma non troppo segreta e più diffusa)..Da De Roberto e Pi- randello in poi, nonostante scarti e ripensamenti propri del Novecen- to neorealista ed espressionistico, si fa via via più solido il terreno su cui poggia una lingua che deve va- lere tanto per lo scritto quanto per d parlato, tanto per d narratore quanto per i suoi personaggi. Anzi, il rischio è che la stdizzazione del parlato si faccia così vistosa e inva- dente da annacquare i suoi stessi effetti, con ricadute nell'iperreali- smo mimetico; ecco allora, di nuo- vo, le incursioni nel vernacolo, non a caso affioranti da testi che pre- sentano una saturazione eccessiva, una costipazione dei tratti morfo- sintattici che simulano l'orale; ec- co, insomma, Tozzi e Palazzeschi. Il gusto di caricare i "colori del vero" riaffiora periodicamente nella nostra narrativa e si può os- servare anche in autori pur tra lo- ro tanto diversi come Pratolini e Pasolini. Ma d fdone principale, da Pavese al miglior Fenoglio, conduce alla lingua media, piana ma non traboccante, senza confini tra oralità e scrittura, a quella mi- scela sapiente di "semplice e com- plesso" che caratterizza i vertici della narrativa novecentesca in - rieccoli - Calvino e Levi. (Ma at- tenti a prendere con le molle certo Calvino: la sua stdizzazione del parlato mi pare a volte tremenda arte di tassidermista, convinto lui, neoplatonico spregiatore del cor- po biologico, che ciò che esce dav- vero dalla bocca come voce sia nient'altro che schifosissima bava filante: che il parlato in questo ca- so sia il funerale di gran classe del- la voce?). Ma concludiamo: la ricerca di Testa non è solo un attraversamen-' to del romanzo italiano per tappe analitiche e critiche; è anche una storia dell'arte di spiaccicare la mela delle parole pronunciate sul- la pagina, ovvero l'arte forse più difficile ed essenziale del roman- ziere: la rappresentazione scritta del parlato, la dimensione lingui- stica che per eccellenza il romanzo ha assunto quasi in esclusiva nel suo dominio, reclamandola anzi nel suo statuto. L'autore riprende in questo senso l'esplorazione già condotta sulla novella dal Tre al Cinquecento (Simulazioni di parla- to, Accademia della Crusca, 1991) e mostra come la scrittura lettera- ria tenda a codificare l'oralità in una serie di tratti morfosintattici e lessicali ricorrenti (li si ritrova su- bito attraverso l'indice delle "cose notevoli"). Ci regala così anche un repertorio dei segnali della parola parlata, ammessi con manica sem- pre più larga e astuzia strategica dagli autori moderni. Lo stile semplice si può leggere allora anche come una storia di quei fenomeni linguistici (utilissi- ma per addetti e "aggiornandi" di buona volontà: interiezioni, anaco- luto, deissi, connettivi testuali, te- matizzazione, concordanza a sen- so, ridondanze, ecc.) che da sem- pre e sempre più caratterizzano il parlato e che solo da pochi anni la grammatica, prima monogamica- mente legata alla sola scrittura sen- .za oralità, ha imparato a riconosce- re, a classificare e ad amare a volte con trasporto. Nova vita americana di Mario Corona Teoria della letteratura. Pro- spettive dagli Stati Uniti, a cura di Donatella Izzo, La Nuova Ita- lia Scientifica, Roma 1996, pp. 184, Lit 32.000. Il neostoricismo, a cura di Vita Fortunati e Giovanna Franci, Mucchi, Modena 1993, pp. 380, Lit 43.000. Criticai White Studies, a cura di Richard Delgado e Jean Ste- fancic, Tempie University Press, Philadelphia 1997, $23.00. Per la completezza dell'informa- zione, per la centralità dei proble- mi in gioco, e per la loro natura non semplicemente disciplinare, teorica e accademica, le "prospet- tive dagli Stati Uniti" raccolte da Donatella Izzo nel suo eccellente volume offrono non solo agli ame- ricanisti e agli anglisti ma a un ben più ampio settore della nostra cul- tura - in primo luogo, penserei, a chi si occupa di letteratura italiana o di letterature straniere non an- glofone- un'occasione davvero ot- tima di familiarizzarsi con situazio- ni, prassi e proposte maturate in quel grande laboratorio sociale, e non solo culturale, che sono le uni- versità statunitensi. Nelle quali, come ci mostra la raccolta di Del- gado e Stefancic, la dialettica mul- ticulturale è giunta al punto da do- ver qualificare come specifici e parziali gli studi critici "bianchi", fin qui sempre spacciati come uni- versali, e ora messi sul piano di quelli "neri", "femministi", "Nati- ve American" e così via. In tale variegato contesto spicca la queer theory, ovvero la critica gay e lesbica, di cui Marco Pustia- naz, nri volume della Izzo, ci offre una "prima assoluta per l'Italia". Un campo di ricerca per nulla mar- ginale o freak, avverte l'autore, vi- sto che pone in radicale discussio- ne alcuni meccanismi profondi dell'ideologia dominante ("domi- nante su chi? e come?"), fondati su "una trasparente naturalità di cate- gorie apparentemente univoche,, quali 'soggetto', 'identità', 'omo/ eterosessualità'". L'esposizione di Pustianaz si svolge, opportuna- mente, su un piano più filosofico che cronachistico, puntando sui cardini Michel Foucault - Ève Ko- sovsky Sedgwick - Judith Butler. La Sedgwick, fra parentesi, autrice di due studi rilevantissimi come Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire (1985) e Epistemology of the Closet (1990), è ancora pressoché scono- sciuta in Italia. Le ramificazioni della queer theory spingono Pu- stianaz a inoltrarsi anche nel terri- torio vasto, accidentato e mutevole della teoria femminista, cui Dona- tella Izzo, autrice pure della den- sissima introduzione generale al volume, dedica un capitolo esem- plare per lucidità e chiarezza, no- nostante i complessi nodi episte- mologici che è chiamata a sbroglia- re. Ma lo "sconfinare" delle singo- le trattazioni nei territori adiacenti è una caratteristica saliente di tutto il volume, il che indica, da parte della coordinatrice e degli autori, ►